
«La Brexit è figlia di un errato calcolo di David Cameron»

«È troppo presto per dire quali influenze avrà la Brexit sull’economia reale italiana. Per quanto riguarda le conseguenze finanziarie, invece, è tutta un’altra storia». Dopo due giorni di perdite in reazione alla Brexit, le Borse rimbalzano e soprattutto Milano torna a guadagnare, ma per il giornalista Oscar Giannino «si tratta solo di un rebound tecnico. Abbiamo problemi storici che ci lasciano molto esposti», dichiara a tempi.it.
All’Italia conveniva di più un Regno Unito dentro l’Ue?
È ancora troppo presto per capire le conseguenze della Brexit, bisogna aspettare. Dal punto di vista dell’economia reale ci sono indicatori standard: gli investimenti diretti di ciascun paese verso il Regno Unito, l’interscambio, i flussi di capitale umano, l’import/export. A seconda dell’impatto sull’economia britannica, capiremo come si potrà riverberare anche sulla nostra economia. Ma noi non siamo molto esposti rispetto ad altri paesi del Nord Europa.
Teme invece le conseguenze finanziarie?
I mercati corrono più veloci delle istituzioni, che hanno tempi incoerenti e lunghissimi. L’origine dei problemi dell’Italia sui mercati la conosciamo tutti: il debito pubblico mostruoso e la debolezza del nostro sistema bancario in termini di capitalizzazione e monte crediti deteriorati, che sono troppi. È inutile che le nostre istituzioni diano la colpa agli altri se siamo deboli ed esposti.
Perché?
Abbiamo lasciato incancrenire il problema bancario per anni. Nel 2012-2013 non abbiamo accettato di sottoporci a un programma vigilato europeo per non ammettere di avere un problema. Abbiamo compiuto errori tragici e ora vediamo che quando i mercati colpiscono, le nostre banche vanno in sofferenza. Del resto, abbiamo rinviato le capitalizzazioni finché non ce l’hanno imposto e ora serve un intervento di emergenza.
Chiederemo all’Unione Europea di chiudere un occhio?
Questo è proprio quello che non dobbiamo fare. Dobbiamo rispettare la cornice europea, non cercare scappatoie facendoci del male da soli, come l’invocazione del ritorno dello Stato nelle banche. Quando sui giornali si scriveva che lo Stato era pronto a immettere nelle banche 40 miliardi, la caduta dei mercati è aumentata perché tutti hanno capito che l’Italia era pronta ad esplodere.
Anche lei pensa che su materie così strategiche e tecniche, come l’adesione all’Unione Europea, gli elettori non dovrebbero decidere direttamente con un referendum?
No. Io considero il nostro sistema costituzionale, che vieta i referendum su materie di spesa e trattati internazionali, una forma inaccettabile di paternalismo di Stato, una violazione del diritto naturale. Chi più del contribuente, che paga le tasse e produce reddito, conosce queste materie? E a quanti altri fallimenti della deroga ai partiti abbiamo bisogno di assistere prima di esercitare il nostro spirito critico? Detto questo, la Brexit è figlia di un calcolo errato del premier David Cameron.
Quale?
Ha vinto le elezioni proponendo il voto, ma con il referendum ha spaccato il paese e i due principali partiti. Mettiamo da parte l’anti-europeismo classico dei britannici, il ricordo dell’impero, la vocazione all’isolamento, eccetera. Se uno convoca un referendum di questo tipo, deve essere straconvinto di avere tutti gli argomenti per parlare non solo al portafoglio degli elettori, ma anche al cuore.
Come dicono i giornali, ha vinto la paura?
Non è giusto dare addosso agli elettori. Non esiste l’elettore completamente razionale, così come non esiste il politico completamente razionale. Gli elettori, come i politici, votano anche in base ai sentimenti, all’emotività, all’identità, ai simboli. L’unica cosa che Cameron ha saputo fare è terrorismo. Ha detto che si sarebbe creato un buco da 30 miliardi di sterline se il Regno Unito fosse uscito dall’Ue, ma così non si persuade chi ha dei dubbi. Il leader dei laburisti Jeremy Bernard Corbyn, poi, non ha neanche fatto campagna. Gli è andata anche troppo bene, hanno perso di pochi punti percentuali.
La colpa insomma è dei politici, non degli elettori?
Certo, infatti io non sono rimasto sorpreso dal risultato. Il Regno Unito non è la city e questo vale per tutti i paesi europei. Invece che dire che “non si possono fare referendum su queste materie”, dobbiamo chiederci perché in Italia, dove i sentimenti europeisti hanno sempre toccato il 70 per cento, l’apprezzamento dell’Ue è sceso sotto il 50 per cento.
Lei cosa risponde?
È un sentimento figlio della retorica della nostra politica. Chi è che incolpa i tedeschi ogni giorno per tutto, dal debito pubblico al 134 per cento alla difficoltà delle banche? A forza di dirlo, gli italiani hanno maturato una domanda: perché restare in un’Europa dove comanda la Germania che è cattiva? Ma di chi è davvero la colpa se la nostra spesa pubblica è così alta?
In tanti, ultimo l’ex presidente della Repubblica francese Valéry Giscard d’Estaing sul Corriere della Sera, ora chiedono un’Europa più federale. È la soluzione giusta per recuperare il consenso perduto?
Probabilmente è la strada giusta, e bisognava seguirla da subito, ma allora abbiamo sbagliato quando con Romano Prodi abbiamo favorito l’espansione a est dell’Unione. Io sono scettico, perché a invocare più federalismo sono gli stessi politici che hanno governato facendo l’esatto opposto. Una federazione nasce dall’idea che i mercati del lavoro, dei beni e dei servizi siano comunicanti.
Come negli Stati Uniti.
Esatto. In America un lavoratore o un’impresa può spostarsi su tutto il territorio alle stesse condizioni. Ma Tremonti e Prodi, quando hanno governato, hanno sempre difeso a spada tratta il nostro mercato e le nostre regole nazionali, per paura dell’arrivo del famoso idraulico polacco. C’è quindi una contraddizione di fondo. Non possiamo invocare il federalismo solo per chiedere di spendere di più. Così si capisce la scelta britannica.
Cioè?
Io non condivido la posizione di chi grida: riprendiamoci la nostra sovranità. Ma essa affonda le radici nell’atteggiamento dei nostri governi di destra e sinistra. Chi ha mai osato dire alle categorie italiane: aboliamo le nostre normative e adottiamo uno standard comune europeo? Allora tra la posizione inglese e quella dei nostri governi, che altro non è se non la brutta copia, preferisco l’originale.
Foto Ansa
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3 commenti
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Bene, ecco un’analisi comprensibile e fatta come si deve.
Eppure c’è qualche cosa che non va nel mercato unico: ci sono settori che sono sottoposti alla concorrenza di altri paesi e settori privilegiati.
Un dipendente comunale, regionale, statale, un magistrato, un avvocato (questi hanno pure le tariffe minime), un notaio, un commercialista un soldato non dovrà preoccuparsi della concorrenza dei lavoratori provenienti dai paesi più poveri.
Invece un operaio, un autista di camion, un muratore si troverà a dover “combattere” con altri poveracci come lui per poter lavorare.
Perfettamente d’accordo. O più Europa, i.e. federalismo stile USA o Svizzera, o zero Europa, i.e. ognuno per sé. E i cittadini devono avere il diritto di indire referendum su trattati internazionali, spese, nonché accoglienza a rifugiati e migranti: la Svizzera non ha sempre funzionato così?