
Bret Stephens. I liberal, conformisti lontani dall’America vera
Bret Stephens è un genio. Lo scrittore americano, ebreo e democrat per formazione, è il responsabile della cultura del Wall Street Journal, per cui cura le grandi interviste, da George W. Bush a Condoleeza Rice. In questa veste, ma prima ancora in quella di editorialista dell’agguerrito Jerusalem Post, Stephens fa le pulci alla cultura liberal e denuncia la “schizofrenia” del progressismo su religione, scienza, guerra e filosofia della storia, tutti temi al centro delle elezioni americane di medio termine.
Ora che la Right Nation sembra in pieno stallo, impantanata fra scandali sessuali e l’effetto maretta della guerra irachena, la voce di Stephens è ancora più preziosa per capire come la maggioranza degli americani resti di molto lontana dalla “cultura del rifiuto” degli intellettuali. «Visto che parliamo al pubblico italiano, sarà meglio definire la parola “liberal” – spiega Stephens a Tempi – Non intendo la piccola banda di europei che va dall’olandese Frits Bolkestein allo spagnolo José María Aznar. Con liberal indico la generazione del ’68, permissiva e sperimentale nell’attitudine verso il sesso e lo “stile di vita”, socialisteggiante in economia, egualitaria nella visione della società, pacifista, antireligiosa e culturalmente relativista. Sono gli stessi “non violenti” che hanno ammirato il terrore rivoluzionario di Ho Chi Minh, Mao e Arafat? Come possono queste persone, così indulgenti verso indù, buddisti e musulmani, detestare il giudaismo ortodosso, il protestantesimo evangelico e il cattolicesimo? Com’è che i liberal che si dicono campioni dei poveri – i Ted Kennedy, Barbra Streisand e Warren Beatty – misurano il loro stato di salute in centinaia di migliaia di dollari?». Stephens è una narrativa vivente dell’apostasia di questa cultura dominante, che lui giudica conformista e lontana dal cuore dell’americano medio. «Ho citato solo alcuni esempi della loro ipocrisia. Ma non è solo questo, c’è qualcosa di misterioso e di profondo che ha a che fare con la psicologia, la filosofia e l’estetica».
Fini egualitari e mezzi elitari
«Il liberalismo è viziato dall’utopismo, è un progetto di un mondo migliore. Ma non rendendo il mondo migliore, ma persone migliori per il mondo. L’educazione diventa allora il cuore del progetto liberal. Dobbiamo essere “educati” su tutto, povertà, razzismo, sessismo. Definiscono la propria politica come “progressista” e “ambientalista”». Ma i loro ideali hanno sempre una qualità caleidoscopica. «Sono come un mulinello. Chiedono la fine del genocidio in Darfur ma si oppongono a chi cerca di fermarlo. Come possono queste qualità convivere nella stessa mentalità? Semplice: i liberal ricavano soddisfazione morale opponendosi al genocidio e opponendosi anche alla guerra. Gli interessi dei massacrati del Darfur non contano più niente. È questa la fonte della loro schizofrenia: la passione per la preoccupazione e la repulsione per l’azione. Questa loro autoelezione verso il bene ha senso solo in un sistema aristocratico di bramini. Essere liberal significa ricercare fini egualitari attraverso mezzi elitari, una sorta di dittatura post-marxista del proletariato. Purtroppo per loro, ma grazie a Dio per noi, non si può essere superman e l’uomo qualunque al tempo stesso, il redentore e il redento».
Il primo incontro di Bret Stephens con quello che i liberal chiamano l'”altro” avvenne in un caffè vicino al campus della Chicago University, dove si è formato. «Un mio amico aveva appena letto Lacan e Simone de Beauvoir. Capii perché i conservatori si identificano con la famiglia, la nazione e la religione. Politicamente i liberal ci chiedono la prescrizione della tolleranza. È una glossa al relativismo culturale: lo straniero è altro da te, tu sei altro da lui. Quindi siamo equivalenti. Dunque uguali. Il problema è che siamo davvero in grado di riconoscere l’umanità dell’altro non da ciò che abbiamo in comune, come la biologia, ma da ciò che ci è estraneo. Ho sempre trovato divertente questa tolleranza per l’altro dei liberal. Non ne hanno mai, infatti, per i bianchi che vanno in chiesa, si oppongono all’aborto e votano per Bush. Lo sceicco di al Jazeera, Yusuf al Qaradawi, potrebbe opinare che è legittimo infilare i gay in un sacco e gettarli da una rupe. Ma se un governatore repubblicano si oppone all’estensione dei diritti matrimoniali alle coppie omosessuali allora che il Signore lo salvi dalla dannazione liberal. L’idea che si debba automaticamente tollerare l’altro mi sembra una pericolosa abdicazione del nostro giudizio morale. In Giordania, o in certi quartieri di Berlino, un fratello può uccidere la sorella perché ha commesso qualche piccola effrazione dell’onore familiare. In Nigeria e in Pakistan le donne sono rapite e condannate a morte per adulterio. Non sono mere pratiche di alterità, sono istanze di barbarie. E il nostro fallimento nel denunciarle ci rende complici di questa barbarie».
L’antisemitismo prospera a sinistra
«Oggi così l’antisemitismo è diventato un fenomeno di sinistra, sebbene venga spesso camuffato come “critica a Israele” e antisionismo. Quella sinistra che riesce a fare causa con i fanatici religiosi di Nasrallah e Ahmadinejad, il nemico comune è Israele e Stati Uniti. Ma così diventano complici dei loro crimini». Fra Europa e America le differenza insanabili restano molte. «Gli americani vivono in un mondo hobbesiano di minaccia, gli europei in uno di kantiana pace eterna. Gli americani credono nell’efficienza della potenza e della forza, gli europei nel dialogo e nel consenso. Nonostante la diffamazione subita da Oriana Fallaci e l’incapacità di difendere papa Benedetto XVI dopo il pronunciamento di Ratisbona, gli europei non mi sembrano ancora disposti a subire la schiavitù jihadista. L’Europa è stata esclusa dalla realtà della lotta politica per troppo tempo. Ricordo le parole dell’ambasciatore di Norvegia alle Nazioni Unite, Jan Egeland, che giorni dopo lo tsunami accusò gli Stati Uniti di essere “spilorci”».
La libertà è un concetto religioso
Ma soprattutto è la religione a creare il vuoto fra i due continenti. «La libertà è un concetto religioso, non secolare. Anche se l’Europa post-cristiana lo negherà ovviamente. I più importanti esponenti del movimento antischiavista erano profondamente religiosi, così come Woodrow Wilson e il reverendo Martin Luther King. I politici coinvolti nel Darfur, come John Danforth e Sam Brownback, sono cristiani evangelici. Bush ha varcato una chiesa nella sua visita cinese nel Beijing. La religione cristiana offre ai fedeli un set di idee non materialiste per cui si può vivere e morire». La prima istanza di questa schizofrenia si chiama Guantanamo. «I liberal diventano apoplettici nel menzionare Guantanamo, il “Gulag del nostro tempo” secondo Amnesty International. Ma raramente offrono alternative plausibili. La loro retorica è un’altra manifestazione di questa curiosa scissione fra intenzione e risultato che caratterizza il loro pensare. L’argomento più usato dai liberal è che i detenuti di Guantanamo devono essere trattati come prigionieri di guerra e secondo la convenzione di Ginevra. C’è un problema: i terroristi non sono criminali né soldati. Se coloro che combattono senza l’uniforme possono beneficiare del Trattato di Ginevra, qual è il beneficio di combattere con l’uniforme? Estendere a Guantanamo la Convenzione di Ginevra significa annullare tutte le leggi di guerra. La Germania sta tentando di processare invano e per la terza volta Mounir Motassedeq, il compagno di Mohammed Atta certamente membro della cellula dell’11 settembre. La Germania potrà congratularsi con se stessa per la letterale aderenza alle regole della procedura, ma lo scopo in questo caso non è la compiacenza, ma la giustizia. E poi, nonostante le molte affermazioni per cui Guantanamo sarebbe un inferno sulla terra, molti detenuti hanno chiesto di rimanervi».
Benedetta Ratisbona
«Ho vissuto e lavorato vicino a Ground Zero. L’11 settembre non è un’astrazione, non un simbolo, e non è, come stupidamente si dice spesso, una “tragedia”. È la manifestazione del male umano. Sarebbe bello vivere nel mondo senza macchia dei liberal, ma non è quello il nostro mondo. È meglio vivere in un mondo in cui la giustizia è realizzata». Uno come lui fatica a trovare degli appigli culturali in una simile cultura d’alienazione chic. E allora, lui che è ebreo e cresciuto in un mondo a cinquemila miglia dal Vaticano, decide di aprire le pagine che Joseph Ratzinger scriveva negli anni Sessanta. Ma soprattutto Ratisbona. «Quel discorso andava letto per intero, non semplicemente come traccia per le chiese della West Bank incendiate dai musulmani fanatici. E sì, a dispetto di quanto dicano i nervosi vaticanisti, Benedetto XVI ha capito che l’islam è una religione della spada». Ma è il Papa che vede lontano per un’altra serie di motivi. «Il protestantesimo è una forma di fede “primordiale”, la teologia liberale riduce Gesù Cristo al padre di un messaggio umanitario, il razionalismo scientifico è inadeguato a rispondere alle domande umane specifiche sul destino e l’origine dell’uomo e ciò che chiamiamo “pluralismo cattolico” non è altro che una nozione falsa e grezza. In un’era in cui le tecnologie biomediche hanno iniziato ad alterare i contorni della natura umana, domande su quando inizia la vita o cosa è concesso fare in nome della medicina sono fondamentali. La cristianità, nella visione di Ratzinger, è definita dal dialogo fra Atene e Gerusalemme, la ragione e la rivelazione. L’Occidente che abbandona il dialogo fra ragione e fede cessa di essere l’Occidente. E diventa colpevole degli stessi errori che Benedetto XVI imputa all’islam. È questo l’insegnamento del Papa e non ha bisogno di scuse».
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