
«Così com’è, la norma sul reato di abuso d’ufficio è inutile»

Metti la firma, togli la firma, metti la firma, togli la firma. In questa parafrasi di un celebre film per ragazzi di alcuni anni fa c’è tutto il pathos che avvolge la mente del pubblico amministratore dinanzi alla sottoscrizione di un atto, una delibera o una determina. Un amministratore pubblico che potrà essere animato da moti interiori che nessuna riforma potrà mai prevedere né intercettare: per queste cose c’è da rivolgersi altrove. Certo è che il reato di abuso d’ufficio (previsto e punito dall’articolo 323 del Codice penale) da qualche tempo sta rubando la scena della discussione pubblica, tra altro, per la ineludibile necessità di metter mano a una sua modifica. Lo chiedono in tanti, lo annunciano in tanti, lo sperano e ne disperano altrettanti.
Facile a dirsi, meno facile a farsi. C’è chi lo vorrebbe cassare sic et simpliciter – ad esempio il nuovo Guardasigilli più FI più altri pezzi sparsi anche nella minoranza – chi lo vorrebbe solo modificare lasciandone viva la parte essenziale – in particolare Lega e FdI – attraverso una nuova riduzione dell’ambito di applicazione sulla base di criteri interpretativi più stringenti, che superi pure la mini-riforma del 2020.
La soluzione ottimale? Non c’è, non esiste in natura, figurarsi nel diritto. Di sicuro un approccio “entomologico” al problema, tipico di una certa tradizione italiana volta alla disciplina dei dettagli più minuziosi della condotta umana, è il classico rischio dietro l’angolo. Tempi ne ha discusso con un magistrato cosiddetto “di prima linea” (dove l’abuso d’ufficio per certi imputati è addirittura una speranza rispetto ad altri reati), capo di una importante procura del Mezzogiorno e persona di lunga esperienza e dal poco ambiguo impianto culturale. Parliamo di Giuseppe Borrelli, guida dell’ufficio inquirente di Salerno, tra i più estesi e multiformi del sud d’Italia.
In base alla sua lunga esperienza di pubblico ministero, che idea s’è fatto del reato di abuso d’ufficio?
Guardi, si tratta di un reato, oggettivamente, dai confini molto generici. Una norma che intende punire comportamenti della pubblica amministrazione che, pur percepiti dalla coscienza sociale come sicuramente illeciti, non rientrano nelle ipotesi di corruzione, concussione, e così via. È il caso, ad esempio, del pubblico amministratore che, avendo la disponibilità nel patrimonio comunale di una villa, magari confiscata, piuttosto che adibirla a scopi sociali la utilizza come propria abitazione gratuitamente. Si tratta anche di un reato che ha subito, nel tempo, tutta una serie di modifiche legislative che ne hanno sempre più ristretto l’ambito di applicazione. In particolare, con l’ultima riforma del 2020, il reato è stato escluso con riferimento a tutte quelle attività della pubblica amministrazione che prevedono ambiti di discrezionalità. Quindi, come è ben comprensibile, con riferimento al 90 per cento delle attività poste in essere dalla pubblica amministrazione.
È davvero un reato-omnibus dai contorni indefiniti, come da più parti si dice (da ultimo l’attuale Guardasigilli), che consente all’inquirente di avere un pretesto per indagare su altro e/o contestare reati più gravi, oppure è un istituto in sé desueto e da riformare o, ancora, da lasciare così com’è?
A me pare, più che altro, che, per come attualmente formulata, la norma sia sostanzialmente inutile. In passato esisteva un reato, quello di interesse privato in atti d’ufficio, che puniva il pubblico ufficiale che “prende un interesse” in un atto del suo ufficio. Ecco, in questo caso la condotta era descritta in modo molto più dettagliato e consentiva di punire quei comportamenti ai quali mi riferivo prima e pacificamente ritenuti, sentiti, dalla collettività come illeciti. Ovviamente c’è anche l’alternativa di ritenerli, invece, pienamente ammissibili. Queste non sono decisioni che competono alla magistratura. Quello che però va detto è che i processi per abuso d’ufficio non costituiscono alcuna “chiave” per indagare su altri fatti. Anche perché non consentono alcuna attività di indagine particolarmente invasiva, come intercettazioni e così via.
I numeri sull’articolo 323 cp diffusi l’altro giorno dal ministero della Giustizia sembrerebbero inconfutabili: 18 condanne su 455 processi; 370 rinvii a giudizio contro 4613 archiviazioni, con relativo intasamento delle aule di giustizia. Bisogna agire o no?
I numeri devono essere letti avendo a disposizione tutti i dati. Altrimenti possono essere fuorvianti. In primo luogo, ci troviamo di fronte ad una norma che è stata profondamente cambiata nel 2020 al fine dichiarato di ridurne l’ambito di applicazione. Mi pare che le assoluzioni siano perfettamente compatibili con questo mutamento della regola. In sostanza, è avvenuto che comportamenti prima illeciti oggi non lo sono più, per cui gli imputati sono stati assolti. Quanto al numero dei rinvii a giudizio a fronte del numero dei procedimenti, credo che il dato dia l’idea di una sostanziale capacità delle Procure a filtrare tra le notizie di reato quelle effettivamente dotate di fondatezza. Il punto è che il 90 per cento dei procedimenti per abuso d’ufficio vengono aperti non su iniziative delle Procure ma a seguito di denuncia sporta da privati cittadini. Si tratta delle denunce più varie, di cittadini che hanno ricevuto dalla pubblica amministrazione torti che essi, a ragione o a torto, ritengono illeciti, ma che non rientrano nell’ambito di applicazione della disposizione penale per come è stata disegnata dal legislatore. Ne deriva la necessità di procedere alla iscrizione, che è un atto dovuto, e alla conseguente archiviazione. Sarebbe interessante, infatti, verificare per quante di quelle 4.613 archiviazioni siano state svolte complesse attività di indagine. Addirittura quanti degli indagati in quei procedimenti abbiano saputo di essere stati iscritti. Ritengo, per esperienza, una percentuale minima.
Se dovesse o potesse dare un consiglio al suo ex collega Nordio, cosa gli direbbe?
Non mi permetto di dare consigli al ministro della Giustizia che, ritengo, non ne abbia nemmeno bisogno. Credo che ognuno debba svolgere la sua parte. La Magistratura applicare le leggi, alle quali è sottoposta; la Politica, farle, assumendosi, però, chiaramente la paternità delle conseguenze della loro applicazione.
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