Il bonus psicologo? Un bonus monopattino della Salute mentale

Di Caterina Giojelli
31 Ottobre 2022
«Un'erogazione di soldi a pioggia, rischia di restare fuori chi ha più urgenza. Le patologie aumentano, il settore è in ginocchio, mancano i medici. Non servono misure spot». Intervista a Emi Bondi, presidente Società italiana di Psichiatria

«Male non fa, ma non nascondiamoci dietro a un dito: senza un filtro, senza una valutazione medica iniziale, il bonus psicologo non è che l’ennesima erogazione di soldi a pioggia che rischia di lasciare fuori chi ne ha più bisogno e urgenza. La rete dei servizi per la Salute mentale è allo stremo: non c’è personale, stiamo chiudendo i servizi psichiatrici di diagnosi e cura, non riusciamo a intercettare la malattia. Questa è la situazione. Non ci sono risorse per ragionare in un’ottica d’insieme, potenziare le realtà capaci di offrire un servizio appropriato e integrato, sia di tipo psicoterapeutico che psichiatrico come indicato per certe patologie? Si abbia il coraggio almeno di dirottare quelle ci sono verso chi ne ha più bisogno. Non a tutti. Così il bonus psicologo è un bonus monopattino. O il banco a rotelle della Salute mentale»

La corsa al bonus psicologo

Chiama le cose con il loro nome la dottoressa Emi Bondi, direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’Asst Papa Giovanni XXIII di Bergamo, fresca di nomina a presidente della Società italiana di psichiatria (prima donna eletta dopo un secolo e mezzo di storia). Sono quasi 400 mila le richieste pervenute all’Inps da tutta Italia per il bonus psicologo, più del 60 per cento provenienti da giovani under 35: c’è chi parla di “enorme successo”, chi polemizza, chi, come il padre della misura Filippo Sensi, invita il nuovo governo a «stabilizzare» subito il bonus e destinarvi «più fondi per venire incontro alle enorme mole di richieste arrivate». Più fondi, ovvero più dei 25 milioni stanziati (15 milioni con l’ultimo Decreto aiuti) per garantire dalle 4 alle 12 sedute di psicoterapia del valore di 50 euro, fino a un importo massimo di 600 euro, a chiunque si trovi in condizione di depressione, ansia, stress e fragilità psicologica «a causa dell’emergenza pandemica e della conseguente crisi socio-economica».

«Non si aiutano le persone a forza di bonus, il settore è in ginocchio»

Il bonus sarà erogato senza distinzioni di età, in base all’Isee (fino alla soglia di 50mila euro) e all’ordine di arrivo della domanda. Ma le risorse non bastano, solo 1 su 10 richiedenti ne potrà beneficiare, denuncia tanta stampa: «A maggior ragione serviva un criterio perché i soldi andassero a chi ne ha più bisogno – spiega Bondi a Tempi -. Quanto a rivendicare più risorse per il bonus, ricordo che oggi meno del 3 per cento per cento del budget della sanità viene destinato alla Salute mentale, nonostante nella conferenza Stato Regioni del 2001 i governatori si fossero impegnati a riservare almeno il 5 per cento dei fondi alla sua tutela e nonostante in Europa venga allocato il 10 per cento. Il settore è in ginocchio, mancano i fondi e mancano i medici, gli infermieri, facciamo fatica a trovare anche gli educatori».

Il Covid ha stressato un sistema che già faceva acqua: «Oggi patiamo il risultato di dieci anni di tagli lineari sulla sanità che hanno colpito indiscriminatamente anche le regioni più virtuose e capaci di razionalizzare i capitoli di spesa. E davanti a questa drammatica situazione, una volta usciti dalla fase emergenziale, cosa si è fatto? Si è rimesso mano alle priorità, la programmazione e la redistribuzione di risorse? No, oggi come ieri si lavora a toppe, si lanciano misure spot promettendo soldi a pioggia senza discriminazioni. Ma come si fa ad aiutare le persone a forza di bonus e senza discriminarle, nel senso di distinguerle, differenziare le risposte in base a chi ha più necessità?».

Il Covid è stato un acceleratore

Buona parte delle richieste proviene dalla Lombardia e in particolare dalla bergamasca, la zona più colpita dalla prima ondata del Covid. Tuttavia anche da questo punto di vista il virus non è stato che «un acceleratore, un potente acceleratore, di un fenomeno in corso da diversi anni. Già a partire dal Duemila abbiamo dati che attestano un incremento delle patologie psichiatriche, soprattutto di ansia, depressione e un abbassamento dell’età di esordio, dati in crescita costante tra il 2010 e il 2019. Lo stress, la paura, l’isolamento che hanno caratterizzato il periodo della pandemia in questo senso sono stati fattori che nei soggetti più vulnerabili o a rischio hanno concorso all’insorgere della malattia. Ma il trend esisteva già».

Il rischio di banalizzare la malattia e quello di medicalizzare la normalità

In questo contesto il rischio di banalizzare una malattia agli esordi, una “condizione” specifica che richiede una terapia, un professionista, così come quello di “medicalizzare” un disagio della “normalità” durante la crescita o fasi di cambiamento, è dietro l’angolo. Anche per questo è importante «saper fare uno screeening delle richieste di aiuto. Intendiamoci: tutti devono poterlo chiedere liberamente; c’è chi, agli esordi di una malattia, avrà bisogno di un supporto di tipo farmacologico o psicoterapeutico, o di entrambi. C’è chi avrà bisogno di “semplice” ascolto, confronto. È innegabile riconoscere che oggi, col venire meno di figure di rifermento nelle difficoltà della vita – quali potevano essere una volta lo zio, il maestro, il parroco: le famiglie sono sempre più sole, i genitori lavorano entrambi -, il tempo dedicato ai ragazzi è sempre più ridotto, ma non si riduce il loro bisogno di poter parlare con qualcuno che li aiuti a capire, a capirsi e a crescere. A volte il ruolo dello psicoterapeuta supplisce alla mancanza di figure di riferimento. Ma le richieste sono diverse e non tutte vanno nella stessa direzione».

Adolescenti, “terra di nessuno”

Bondi sottolinea in particolare il rischio concreto che i ragazzi diventino terra di nessuno proprio nella fase «dell’adolescenza, dove avviene la maggior parte degli esordi psichici e dove spesso e volentieri i giovani incontrano prima le sostanze del medico, finendo per “automedicarsi” a modo loro fino a devastarsi. I ragazzi vengono allora portati al pronto soccorso e da lì destinati alla Psichiatria per gli adulti. Questo perché la Neuropsichiatria infantile, che avrebbe pertinenza in quella fascia di età, è ai minimi termini in quanto a posti letto, strutture, disponibilità di risorse avendo già in carico tutto il comparto disabilità, epilessia, malattie a insorgenza in età scolastica che la impegnano enormemente. Ideale e necessario sarebbe sicuramente superare le distinzioni tra i due reparti, unire gli sforzi di entrambi attraverso unità dedicate a rispondere in maniera integrata e nel modo migliore. Ma anche poter contare sulle alternative ai ricoveri in reparto grazie alle comunità e i centri diurni per i giovani, realtà preziosissime ma anch’esse in crisi. Sono poche, sovraccariche, senza personale».

«Servono più comunità e meno misure spot»

Rispondere a bisogni complessi della persona, in base alla gradualità delle sue istanze e senza farla “a pezzi” rimandandola a diverse strutture e sportelli, è la sfida di chi non si fa carico di sole malattie, ma di persone intere e intere famiglie: «Si lavora insieme, con figure diverse; l’allontanamento temporale è disposto solo nei casi in cui la famiglia sia decisamente parte in causa dell’insorgenza di sintomi e dinamiche distruttive, o sia stata destrutturata dalla malattia di un figlio al punto da non riuscire più ad aiutarlo. Le comunità in questo senso sono indispensabili per fornire a tutti il tempo necessario a recuperare, reinserirsi, riprendere in mano il proprio cammino e una libertà di rapporto difficile da sperimentare se riduciamo il ragazzo a un utente di un servizio. E per farlo abbiamo bisogno di affrontare la situazione, non di procrastinarla a colpi di bonus».

Foto Ansa

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