Se le bollette aumentano è colpa del piano ambientale europeo

Di Gianclaudio Torlizzi
17 Settembre 2021
Dietro alla folle corsa dei prezzi dell’energia elettrica e del gas naturale ci sono scelte politiche non più adeguate alla situazione fiscale e monetaria mondiale
pannelli solari

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Credit crunch. Nelle sale trading delle banche d’affari hanno già coniato il termine da utilizzare per spiegare le dinamiche dietro all’attuale folle corsa dei prezzi dell’energia elettrica e del gas naturale a cui stiamo assistendo negli ultimi mesi e che sta registrando una forte accelerazione nelle ultime settimane. In effetti, a dare uno sguardo alle performance in termini percentuali, emerge un quadro particolarmente drammatico.

Perché avremo bollette più care

Dai minimi toccati nel maggio dello scorso anno, il prezzo spot dell’energia elettrica in Italia è balzato dell’800 per cento, passando da 19 euro/MWh a 174 euro/MWh. Il rialzo arriva addirittura a 4 cifre percentuali nel caso del gas naturale la cui rilevazione sul mercato spot ha segnato un’impennata del 1150 per cento, passando da 5 euro/MWh a 65 euro/MWh. Il fenomeno valica ovviamente i confini di casa nostra, se pensiamo che anche il contratto TTF, utilizzato come benchmark per il mercato europeo, ha prodotto dallo scorso mese di maggio un rincaro ancora più consistente del 1460 per cento.

Molteplici sono le ragioni che hanno determinato rincari così importanti che naturalmente si tradurranno in un pesante aggravio della bolletta energetica per consumatori e imprese stimato in circa il +40 per cento solo nel quarto trimestre. In primo luogo insiste naturalmente il boom dei consumi derivante dai circa 32 milia miliardi di dollari in stimoli fiscali e monetari implementati dalle banche centrali e dai governi per compensare gli effetti recessivi sull’economia mondiale a causa delle politiche di lockdown.

La crescita della domanda è stata talmente forte da mettere sotto stress la filiera produttiva e spingere il livello delle scorte europee di gas naturale al di sotto della media del periodo pre-pandemico tra il 2015 e 2019, costringendo gli importatori europei a entrare in concorrenza con gli acquisitori nel mercato asiatico per accaparrarsi quantità aggiuntive di gas naturale liquefatto (LNG).

Inverno a rischio blackout

A peggiorare il quadro sono sorte anche problematiche legate all’offerta tra cui la bassa capacità produttiva sul fronte eolico a causa dei venti particolarmente deboli nelle ultime settimane che hanno costretto le utilities europee a utilizzare una maggiore quantità di gas naturale e anche il minor afflusso dalla Russia. Proprio su questo punto si è sviluppato un dibattito recentemente se dietro i tagli produttivi dalla Russia non vi sia anche un ‘messaggio’ alla UE oramai legata mani e piedi a Mosca attraverso il nuovo gasdotto NorthStream2.

Ma, al netto delle dinamiche geostrategiche, l’aspetto realmente preoccupante ruota attorno al fatto che i depositi di stoccaggio europeo veleggiano attualmente intorno al 71 per cento, ben al di sotto non solo del livello pre-pandemico dell’84 per cento, aprendo così al rischio di un’ulteriore impennata dei prezzi il prossimo inverno e dando il via appunto a un energy crunch che potrebbe sostanziarsi in fenomeni di blackout, mettendo a rischio così l’attività produttiva del Vecchio Continente. L’aspetto paradossale è che il forte rialzo del prezzo del gas naturale sta nuovamente incentivando le utilities a tornare al carbone per produrre energia elettrica al fine di salvaguardare il più possibile le scorte di gas, con buona pace dei zelanti piani di riduzione delle emissioni di carbonio contenuti all’interno del piano sul clima UE.

Le colpe del piano ambientale europeo

Ma è proprio nel piano ambientale comunitario annunciato lo scorso mese di luglio che vanno ricercate le responsabilità parziali della dinamica a cui stiamo assistendo nei mercati energetici. Perché una verità, forse scomoda, va detta: l’elemento cardine del piano climatico concepito da Bruxelles ruota proprio attorno alla riforma del sistema ETS ossia sulla riduzione progressiva delle allocazioni gratuite di emissioni di carbonio di cui godono attualmente i settori energivori. Lo scopo ultimo è semplice: innalzare il prezzo della CO2 a un livello tale da rendere economicamente svantaggiosi i combustibili fossili a vantaggio delle applicazioni cosiddette green.

Un piano che, per carità, poteva avere una logica fino alla fase pre-pandemica, ossia fino a quando si registrava una generale oversupply sul fronte delle materie prime su scala mondiale. Ma che oggi appare totalmente insensato in considerazione del cambio di paradigma fiscale e monetario a cui abbiamo poc’anzi accennato. L’aver infatti annunciato un ambizioso piano di riduzione delle allocazioni gratuite di CO2 in un contesto globale di tensione sul comparto delle commodity, infatti, non sta facendo altro che incentivare i player finanziari a scommettere fortemente su aumento del prezzo delle CO2 stessa, i cui livelli di prezzi stanno raggiungendo gli obiettivi previsti dalla Commissione Ue in largo anticipo rispetto alla road map.

Bruxelles scollata dalla realtà

Così come sta dimostrando nella gestione del dossier acciaio (attraverso l’imposizione di quote all’import in una fase storica in cui i paesi produttori come Cina e Russia disincentivano le esportazioni), così anche sulle questioni energetiche Bruxelles dimostra insomma tutto il suo scollamento dalla realtà. Scollamento che ha toccato l’apice questa settimana quando il vicepresidente della Commissione Frans Timmermans ha ridimensionato il ruolo giocato dall’innalzamento del prezzo delle CO2 sulla bolletta energetica. Superfluo concludere come la negazione dell’ovvio rappresenti la premessa per ingenerare una crisi energetica che rischia di compromettere seriamente l’attuale fase di riaccelerazione dell’economia.

Foto di Derek Sutton su Unsplash

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