
Terra di nessuno
Morte di una madre (davvero te ne sei andata?)
Articolo tratto dal numero di marzo 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Da giorni era sempre più pallida, e anche più lontana da noi, come se le nostre parole ormai solo la sfiorassero. Poi, di colpo, il respiro faticoso, il viso terreo, come per un inarginabile cedimento dell’intero suo corpo. Già suonavano per Milano le sirene delle ambulanze nell’emergenza del coronavirus, ma la madre di mio marito, l’amata nonna dei nostri figli, se ne stava andando semplicemente sotto il peso dei suoi novant’anni.
La corsa in ambulanza, il pronto soccorso vuoto e spettrale nella grande paura delle prime ore dell’epidemia. Lei già incosciente sotto la maschera dell’ossigeno: ma come tremava, e quanto il suo petto sussultava, nella fatica di respirare ancora. Come ancora obbedendo a quell’imperativo di vivere, che tacitamente ci conduce.
Poi, nel fondo della notte, il cellulare che suona: «Venite a salutarla», ci dicono. Corriamo nella città deserta, in un’aria che già quasi sa di primavera. Ma lei già se ne è andata. Il figlio le carezza la mano ancora tiepida, il viso finalmente in pace. I nipoti la salutano, e se ne escono muti, con qualcosa, negli occhi, di cambiato.
Anche per mia madre fu una telefonata nella notte, anche allora era quasi primavera. Ripenso a quel mio uscire da un ospedale, sola, avvertendo quasi con dolore il profumo nuovo nell’aria. Anche allora un intero film mi era passato nel cuore in pochi istanti. Il suo bel viso, il suo profumo alla rosa, le braccia in cui, da piccola, mi buttavo come mi tuffassi nel mare.
Quando dormivo con lei nel lettone, stretta stretta, ero pienamente felice. Mi raccontava fiabe che si inventava al momento, bizzarre e strane come sogni; accanto ai miei fratelli che con lei facevano i compiti stavo a guardare, e imparavo. Le scrivevo allora sgrammaticate lettere piene di amore e di cuori. Lei era il mio sole.
Poi il dolore che irrompe in casa, e la morte. Mia madre trasfigurata, che quasi non mi riconosce. In me il cocente, irrimediabile dolore dell’abbandono.
Ma, tra le parole aspre della sua disperazione, sprazzi di tenerezza, ancora. Ancora, certe notti, abbracciata a lei, sveglia, a seguire il ritmo del suo respiro: temendo che quel fiato leggero si spezzasse.
Crescere incerta se volerle assomigliare, lei così bella, ma così stremata nel suo incomunicabile dolore. Poi, io adolescente, la mia ribellione: aspra, cattiva. Eravamo ora due straniere, come costrette in una stessa cella. Mi disse: vattene (ma forse, penso ora, lo disse prima che fossi io a abbandonarla).
Quando andavo a trovarla, ora non sapevo cosa dire. Troppo lontana me ne ero andata, ormai. Al compleanno, a Natale le portavo un regalo. Quando era malata, le medicine. Ne avevo pena e insieme paura.
Tornai infine col mio primo figlio in braccio. Lei fu gentile e distante, come non fosse suo nipote. Forse nemmeno io ero più figlia sua? In casa cominciava a accumulare pile di rifiuti, perfettamente ordinati.
Un giorno, in casa di riposo, per la prima volta dopo la morte di mia sorella la vidi ridere: una coetanea le raccontava di un’improbabile guerra di cui era stata un generale, e mia mamma rideva, rideva. La demenza, pensai, può essere la carità del cielo.
Però quella notte, quando come una settimana fa suonò il telefono, e mi dissero: «È morta», la lacerazione che sentii mi provò che ancora ci legava qualcosa di straordinariamente forte. Corsi, anche quella volta, per Milano deserta. Tremavo, nel salire le scale del reparto. Lei, a novant’anni, aveva il volto candido e fine di una vecchia regina. Le feci una carezza, la sentii già fredda.
E tutti i suoi lontani baci, giochi, tenerezze, mi furono attorno come in uno stormo di uccelli che ti si alzi attorno d’improvviso. Mio Dio, davvero te ne sei andata? E ogni lite dimenticata, e la gran voglia di poterti abbracciare, viva.
Uscire a capo chino nella notte, tra i palazzi con le finestre buie, avvertendo per la prima volta, dietro le spalle, il vuoto. Ora sono sola, mi sono detta, ora più nessuno mi guarderà come lei.
Leggo negli occhi di mio marito, stanotte, lo stesso smarrimento. Lo abbraccio. Ora saranno armadi di vestiti da svuotare, e cassetti di documenti, da cui spunteranno crudeli foto di lontane estati al mare. Dove tutti erano felici, e giovani. E ci sederemo a guardarle, solo adesso sapendo quanto il tempo che ci è dato per crescere, per capire, per amare, sia infinitamente breve.
Foto Ansa
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