
Numerose le vicende presentate nella mostra Uomini nonostante tutto, esposta nel padiglione C1 del Meeting di Rimini, a cura della Fondazione Russia Cristiana e dell’associazione Memorial di Mosca. Il percorso combina due progetti espositivi realizzati da Memorial, le «Lettere del babbo» e «Materiale», dedicati rispettivamente al legame che i detenuti tentavano di mantenere con la famiglia, soprattutto con i figli, e alle donne rinchiuse nel Gulag, succubi delle violenze ma capaci di conservare tutta l’esigenza di dignità, bellezza, amicizia, che le portava a fabbricare di nascosto piccoli oggetti.
L’impresa di restare umani
Dietro i fogli ingialliti e i semplici manufatti esposti solo in fotografia, dato che l’archivio e il museo di Memorial sono sotto sequestro, si nascondono le sorti di milioni di persone. Tanto più prezioso il lavoro di ricerca, raccolta e catalogazione svolto da Memorial, che ha saputo far parlare i pochi documenti e oggetti fortunosamente conservatisi, e raccogliere le testimonianze dei sopravvissuti al Gulag e dei loro cari, così da documentare il possente grido umano che ne scaturisce.
Fra le storie raccontate c’è quella dell’ingegnere georgiano Viktor Mamaladze (1902-1950). Dopo essersi laureato in ingegneria civile a Mosca, lavorò alla costruzione di grandi impianti idroelettrici in tutta l’Urss, fu ingegnere capo del Dipartimento costruzioni del Commissariato del popolo per l’esercito, finché fu denunciato da un lontano parente che l’aveva sentito esprimere giudizi negativi sul potere sovietico. Arrestato nel maggio 1942, fu condannato a 10 anni per «attività antisovietica», e inviato dapprima nel lager di Aktjubinsk (Kazachstan), successivamente nell’Ozerlag alla costruzione della ferrovia Bajkal’-Amur e infine nell’Angarlag – dove morì per infarto nel 1950 – alla realizzazione di un grande ponte sul fiume Angara.
Ma la sua scarna biografia – in fondo, quella di un “onesto” tecnico sovietico vittima di delazione – non tradisce il dramma vissuto in famiglia. Nelle memorie della figlia Irma si delinea la situazione di molti bambini, il rapporto con genitori di fatto per loro inesistenti. «Quando contiamo i milioni periti nei lager – scrisse Solženicyn – dimentichiamo di moltiplicare per due, per tre…».
Il dramma di Irma
«Uno dei miei ricordi più penosi – ha raccontato Irma – ho otto anni, seduta al tavolo da pranzo rosicchio la penna davanti a un foglio di quaderno con l’intestazione: “Caro papà…”. Non riesco ad andare oltre, non capisco come e che cosa scrivere a uno sconosciuto, di cui so soltanto che è mio padre ed è “dentro”… Mi spaventa lo scontento di mia madre: “Ma perché non puoi scrivere a tuo padre una lettera come si deve? La aspetta così tanto, ti vuole così tanto bene…”. Lo so che mi vuol bene, ma lo so per così dire teoricamente, non mi fa né caldo né freddo. Che cosa posso scrivergli? Le mie amiche non le conosce, e al mio sogno di entrare nella scuola di balletto chissà perché ha posto categoricamente il veto; sarebbe troppo lungo scrivergli dei libri che leggo, e poi chissà se li conosce. Pungolata dalla mamma, spremo qualche parolina piatta, senza capire quanto dolore, offesa e disperazione susciteranno in lui. Avevo solo due anni, quando mio padre ci ha visto per l’ultima volta…».
«Era cominciata la sua vita di detenuto, e la nostra di familiari di un nemico del popolo. Come per molti, una vita molto dura, indigente, incerta – ricorda ancora Irma – Le lettere di mio padre arrivavano raramente, ma con regolarità. Per mia madre erano giorni di festa». Per paura di un possibile arresto, la moglie Tamara distrusse le lettere del marito, ma «mio padre a volte vi infilava delle cartoline, su cui disegnava a colori dei paesaggi o degli animaletti, e mi scriveva sul retro. La mamma ritagliava quei disegni e li conservava». Mamaladze poteva disporre di matite colorate perché qualche direttore del lager aveva apprezzato il suo lavoro di ingegnere esperto.
«Ecco sono venuta a trovarti. Perdonami»
Grazie alle ricerche di Memorial, nel 2010 Irma Mamaladze ha potuto leggere il fascicolo carcerario del padre, e recarsi sul luogo della sua scomparsa, presso quel che resta del cimitero del campo di lavoro.
Le ultime parole al padre, nelle sue memorie, riscattano la fatica di quella bambina che non riusciva a scrivergli: «Non è rimasto quasi più nulla. Qualche casa sbilenca che non si capisce come fa a stare in piedi, ampie strade fangose all’inverosimile, un cimitero semiabbandonato, il tricolore che sventola su un edificio che una volta era un ufficio postale… Tu sei qui, da qualche parte, caro il mio paparino! Ecco, sono venuta a trovarti. Perdonami…».
Foto Meeting
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