
Terra di nessuno
Il sole e il Tarlo
Articolo tratto dal numero di marzo 2021 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Milano, 3 marzo, una bellissima giornata. Il sole dalla finestra dello studio, quella affacciata sul cortile ombroso, alle otto entra già deciso e lucente, anche se solo per un’ora, prima di girare dietro il muro grigio del palazzo accanto. Ma è il sole del primo mattino e sempre, come per una memoria ancestrale, mi commuove. Quei raggi che penetrano come una sostanza materiale dalla finestra, e, dentro, scorgi il galleggiare svagato del pulviscolo nell’aria. Il raggio attira magicamente i miei gatti: in tre, insieme, lo aspettano sulla scrivania, già da prima che arrivi. Poi quando il sole colma la stanza si sdraiano, adoranti, a farsene adorare, le pupille sottili negli occhi semisocchiusi, in un gran ronfare di fusa.
E c’è Martino, il figlio di mio figlio, cinque mesi. Si è addormentato. Nella stessa culla di vimini in cui dormiva suo padre. La casa attorno è silenziosa, sono sola. Tutto, nonostante fuori a Milano vogliano fare zona rossa, va abbastanza bene, qui dentro, in questa mattina di quasi primavera. Non abbiamo gravi malanni, lavoriamo. C’è perfino il mio raggio di sole, sulla culla di questo bambino. C’è tutto. C’è soltanto da ringraziare.
E dunque cos’è ancora, cocciuta, tenace, da quarant’anni, questa fitta, questo taglio nel petto come una lama affilata, che a tratti tace, ma poi inesorabile torna a bruciare? Da ragazza, in un diario, questo dolore lo chiamavo “il Tarlo”, «oggi c’è il Tarlo», scrivevo. Il Tarlo rodeva a volte adagio, costante, a volte voracemente. Poi si addormentava. Ma, sempre, tornava.
Dopo anni, finalmente un medico diede un nome al Tarlo, e medicine, per farlo stare zitto. Va meglio da allora, certamente, ma il Tarlo è sopravvissuto. Il Tarlo, credo, è immortale. E rieccolo, stamattina. Non c’è modo di stanarlo.
Come posso spiegarmi? È una ferita, fa male. L’unica cosa che lo calma è il lavoro manuale: lavare, riordinare, spolverare. Quando le mani vanno, il tarlo si accheta. Ma è sempre lì, e non aspetta che tu ti sieda un momento, per mordere di nuovo. Bisognerebbe lavorare sempre, duramente, bisognerebbe zappare la terra tutto il giorno. Oppure, dormire. La salvezza nel sonno, come un naufrago che afferri un lembo di terraferma, e finalmente ci si adagi.
Camminare, anche, dà uno sfogo: camminare a lungo però, e senza fermarsi mai. Perché, in fondo, il Tarlo vuole che tu vada. Dove, non so: so solo che non posso restare. Mi piacerebbe potere essere un pellegrino medioevale, di quelli che percorrevano con un bastone la Via Francigena e dormivano nei fienili, e mangiavano un tozzo di pane. E andavano a Roma, e poi a Gerusalemme. Sì, se diventassi un pellegrino, il Tarlo mi lascerebbe stare. Perché, finalmente, gli ubbidirei.
Forse la ferita che mi insegue da sempre mi dice questo, con l’urgenza del dolore? Cammina ancora, la meta è oltre, vai. E io lo so, che tutta la vita è un peregrinare. Ma mi chiedo a volte se non sto sbagliando strada. Se, a un bivio, non mi sono confusa. Non sono affatto certa della direzione. Verso Gerusalemme, lo so. Ma forse mi sono persa. Forse quel dolore così vivo è questo?
Svegliati, Martino, dal tuo sonno angiolesco. Tu che sei nuovo di qui, ne sono certa, tu sai il segreto, e sai da che parte bisogna andare. Ma non puoi dirlo, perché non sai parlare. Quando parlerai, quel segreto sarà sprofondato nella tua coscienza. Svegliati, e guardami con l’innocenza dei tuoi occhi chiari. Sembrano acqua di Sardegna, d’estate, un mare limpido in cui tuffarsi e abbandonarsi. Svegliati, piccolo, dimmi la strada, tu che sei appena arrivato – tu che ancora sai: ne sono certa, lo vedo bene, nei tuoi occhi color di mare.
Foto di Jackson David per Unsplash
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