La preghiera del mattino

Il rischio di affidare il Pd a un imborghesito emiliano

Stefano Bonaccini
Il presidente della Regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini, ora ufficialmente candidato alla segreteria del Pd (foto Ansa)

Su Affaritaliani si scrive: «“Al di là dei singoli provvedimenti e di come è formulata nel dettaglio, lo vedremo con calma, il giudizio sulla manovra è tecnicamente positivo”, spiega Tria ad Affaritaliani.it. “L’impianto generale appare molto prudente, corretta la scelta di concentrare le risorse sulla mitigazione dell’impatto dell’inflazione. Sia per andare in soccorso a chi non ce la fa, sia imprese sia famiglie in difficoltà, sia per frenare la spirale prezzi-salari che rischia di far crescere ulteriormente l’inflazione. Per questo motivo concentrare le risorse per combattere gli effetti dell’aumento dei prezzi è giusto, l’impatto sul deficit è moderato. Non aumenta il debito e le risorse arrivano da tagli di bilancio. Se guardiamo a tutti i bonus che ci sono, nel bilancio da tagliare c’è moltissimo”. L’ex responsabile di via XX Settembre, quindi, dà un giudizio positivo. “Voto 8 alla manovra, anche se poi dovremo vedere e valutare i dettagli. Speriamo venga formulata bene, ma si tratta di un provvedimento prudente che va nella giusta direzione”. Non solo. “Lo spread è in ribasso e anche se a volte i mercati reagiscono in maniera irrazionale, si tratta certamente di un elemento da valutare positivamente”».

Vi ricordate Giovanni Tria? Era l’eroe dei media mainstream quando Matteo Salvini papeeteggiava. Ora, non essendo utile per contrastare la Meloni, se lo fila solo il valoroso ma non centrale sito web Affaritaliani.

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Sulla Nuova Bussola quotidiana Ruben Razzante scrive: «Il dato che è emerso in questi due mesi dopo il voto del 25 settembre è la deflagrazione delle due forze che hanno alimentato per anni la dialettica destra-sinistra: il Pd e Forza Italia. Subito dopo la clamorosa sconfitta nelle urne, i dem hanno messo sotto processo Enrico Letta per le scelte sbagliate in ambito alleanze. Dentro Forza Italia è invece scoppiata la faida tra falchi e colombe per la conquista delle spoglie di un partito senza più alcuna identità. È un segno inequivocabile dei tempi: i perni del sistema politico non sono più Berlusconi e i post-comunisti. Ed è singolare che a decretarlo siano i cosiddetti padri fondatori di quelle due forze politiche, dichiaratamente o con le proprie azioni. Ha fatto molto rumore ieri un’intervista pubblicata in prima pagina sul Corriere della Sera, nella quale l’editore Carlo De Benedetti, tessera n.1 del Pd, ne ha di fatto decretato la fine. “Le democrazie moderne sono minate da due mali che le divorano da dentro: le crescenti disuguaglianze e la distruzione del pianeta”, ha dichiarato De Benedetti. “Un partito progressista che non mette in cima al suo programma questi due punti non serve a niente, e infatti fa la fine del Pd; che ha conquistato la borghesia e ha perso il popolo”. E ha rincarato: “Il Pd è un partito di baroni imbullonati da dieci anni al governo senza aver mai vinto un’elezione”».

Razzante coglie bene come i due protagonisti della Seconda Repubblica (Forza Italia e l’Ulivo diventato poi partito con il Pd) siano, dopo il voto del 25 settembre, in particolare difficoltà strategica, e insieme ragiona sul fatto che un processo di polarizzazione della politica italiana sia ancora incerto, con ben quattro “poli” presenti nelle ultime elezioni. È un’analisi intelligente, ma che va raffinata: va osservato innanzi tutto come a destra stia crescendo un “movimento conservatore” popolare e di massa, che sostituisce il “personalismo d’emergenza” imposto dal 1992 (con anche una sinistra disegnata in corrispondenza e in contrasto con questo “personalismo”), e come questa nuova tendenza conservatrice sia in sintonia con analoghi processi europei che vedono iniziare a saldarsi destre più radicali e moderate. A sinistra, invece, stenta ad affermarsi in Italia una socialdemocrazia di governo come emerge nel Nord Europa, in Portogallo, in Grecia (dove prima ha vinto, poi perso alle elezioni, ma restando ben salda), e che in qualche misura è in formazione in Germania: la spinta di posizioni radicali (peroniste in Italia) rallenta questo processo come in Francia e come, in gran parte, in Spagna. E contraddizioni le provoca anche l’affollarsi di personalismi (da Carlo Calenda a Matteo Renzi, da Letizia Moratti allo stesso Carlo De Benedetti) spesso animati solo dal risentimento, o, qualche volta, più nobilmente, dalla ambiziosa speranza di ripetere la formula tecnocratica macroniana. Formula, peraltro, non solo in crisi in sé ma che precedentemente ha potuto imporsi esclusivamente grazie alle specifiche caratteristiche dello Stato e della società d’Oltralpe.

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Su Startmag Francesco Damato scrive: «Se eletto davvero, l’attuale presidente della regione Emilia Romagna sarebbe il secondo strappo nella storia dei comunisti e post-comunisti italiani alla regola di non affidarsi a livello nazionale ad un emiliano fattosi le ossa come amministratore nella sua terra, perché sospettabile di imborghesimento. O comunque di indulgenza per una società opulenta e allegra: l’opposto di quella alla quale per generazioni erano stati abituati a pensare emuli e sognatori della rivoluzione bolscevica del 1917».

Come sempre stimolante l’analisi di Damato forse è un po’ semplificatrice. In realtà nel vecchio Partito comunista gli emiliani (ma anche in qualche misura i lombardi, i veneti, i toscani) non esprimevano i vertici del partito non tanto perché troppo edonisti, ma in realtà perché non educati ad avere quella “visione nazionale” di chi era cresciuto nel Regno di Sardegna, ma anche a Roma e nel Regno delle Due Sicilie. La strategia togliattiana, anche in polemica con il socialismo ottocentesco e del primo Novecento, era concentrata su un’idea di nazione non priva di radici cavouriane e giolittiane. Il Pci finì senza dubbio su un binario morto della storia, ma durante la sua corsa non mancò di brillantezza. Stefano Bonaccini dovrebbe ragionare su questa storia e magari proporre un modello federalistico dello Stato che gli consenta meglio di esercitare un ruolo unificatore nazionale basato sulla sua tradizione emiliana, e dunque su un’analisi e non solo sulla retorica.

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Su Dagospia si riprende un articolo di Marcello Sorgi per La Stampa dove si scrive: «Tenendo però presente che il Pd è il prodotto della crisi simmetrica di Dc e Pci, i dirigenti attuali provengono dai due grandi partiti di massa del tempo che fu. “Un amalgama mal riuscito”, lo definì D’Alema. Dimenticare i democristiani, o peggio, considerare in tutto e per tutto assimilabili ai post-comunisti i democristiani di sinistra che nel 2007 confluirono, via Margherita, nel partito fondato da Veltroni, sarebbe un errore. Anzi, è da quella differenza tra chi per mezzo secolo era stato al governo e chi all’opposizione che bisogna partire – dovrebbero farlo entrambi, ex dc ed ex pci – per capire meglio le questioni di oggi».

Perfette le osservazioni di Sorgi: il Pd nasce bacato da due genitori che sono un chiacchierone come Walter Veltroni e un affarista come Romano Prodi. Avrebbe avuto bisogno di un Jacques Delors che sposasse concretamente sentimenti cristiani a progetti socialisti, il suo battesimo invece è stato benedetto essenzialmente dalla retorica da figure Panini veltroniana e dalle privatizzazioni prodiane fatte con lo stile di Carlos Menem e Boris Eltsin.

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