
Terra di nessuno
Come vorrei, ora, poterti abbracciare
Articolo tratto dal numero di aprile 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Milano, 17 marzo – Chiusa in casa, stamattina ho pensato a un’amica, la pediatra che ha curato i nostri figli, ora primario di neonatologia in un ospedale in città. L’ho immaginata in trincea e le ho mandato un whatsapp: «Stai bene?». Non mi ha risposto, l’ho creduta troppo occupata.
Poi ho notato che già a febbraio non mi aveva risposto. Strano. Poi leggo: ultimo accesso a Whatsapp, a ottobre. Allora scrivo a un collega che la conosce: «Mi dai il cellulare di Paola? Deve avere cambiato numero». Lui mi risponde subito: «Ma, non sai?». «No», digito io, sentendo già il cuore che accelera.
E così, oggi, che si vengono a sapere certe cose. Una persona che ti è cara, anche se non la senti spesso, non risponde a un messaggio. Oppure ti accoglie una voce registrata, «il numero chiamato è inesistente». Così ho saputo che Paola, la pediatra dei nostri bambini, è morta, portata via in pochi giorni da una malattia rapinosa.
Sono rimasta col telefono in mano, immobile. Ma già vedevo avanzare dentro di me un esercito poderoso di ricordi. Paola c’è, nelle foto del nostro matrimonio (come rideva, quando le dicevo che secondo me lo sposo all’ultimo non si sarebbe presentato all’altare). Lei ha visto tutti e tre, neonati, appena arrivati a casa, e ogni volta dopo una rapida visita con le sue mani esperte mi ha sorriso: «Bellissimo, sanissimo». Di lei mi fidavo totalmente: era uno di quei medici che avvertono ciò che non va già guardando il paziente, toccandolo, senza bisogno di esami.
Io, terribilmente ansiosa, ogni volta che la febbre superava i 38,5 la chiamavo: «Paola, ma non sarà meningite?». E lei veniva sempre, di domenica, a Natale, a Ferragosto. Auscultava, faceva dire «Aaaaah» con la bocca spalancata ai pazienti rossi in volto e recalcitranti, e ogni volta i suoi occhi grigi, prima che parlasse, mi rassicuravano: tranquilla, non è niente.
Un figlio a due anni si arrampicò su una sedia in cucina, e riuscì a tirarsi in testa un massiccio bollitore d’acciaio. Un grosso taglio sulla fronte: sanguinava. Lei arrivò subito, lo esaminò, infine non riuscì a non ridere: «Vivace, il piccolo…», mentre io riprendevo a respirare, e ridevo con lei. Non era mai niente, non era mai successo niente di cattivo: negli occhi di Paola, i miei fantasmi rimpicciolivano e scappavano.
L’ultima volta che l’ho sentita è stata a giugno. Le ho detto che il primogenito, quello del bollitore, stava per sposarsi. Mi ha risposto contenta e affettuosa, e aggiunto: «Noi si invecchia, ma teniamo duro». Invece, Paola, tu che eri così forte e instancabile, tu che da ragazza stavi anche dodici ore in ospedale, sei stata colta d’improvviso, alle spalle. La morte, è venuta come un ladro.
Ma io ricordo, quasi trent’anni fa, la Messa feriale del mattino, alle otto e mezza, nella basilica di Sant’Eustorgio. Tu non mancavi mai, sempre allo stesso posto. Avevi una fede serena, senza incrinature. Una fede assoluta: in Cristo, che non ti ha mai, ne sono certa, abbandonato.
Guardo sul cellulare la foto delle nozze di Pietro, che ti avevo mandato. C’erano tutti, i tuoi tre ex pazienti. Mi avevi risposto subito: «Grazie mille! Che emozione vederlo così grande! Mi ricorda il tuo papà. Caterina è davvero bellissima».
Come vorrei, ora, poterti abbracciare. (Bisogna abbracciarli spesso, quelli cui si vuole bene. Giacché, lo vedo con chiarezza in questi giorni, la vita è un soffio).
Foto pxhere.com
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