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Cina. Per zittire gli attivisti, il partito comunista li fa ancora rinchiudere negli ospedali psichiatrici
Bisognerebbe sempre prendere con le molle le promesse del partito comunista cinese. Come accaduto per i laojiao, i campi di rieducazione attraverso il lavoro aboliti ufficialmente nel 2013 e riaperti l’anno dopo sotto diverso nome, anche la legge varata nel 2013 per impedire l’incarcerazione dei dissidenti negli ospedali psichiatrici non ha funzionato.
PIÙ DI 30 CASI. L’ultimo rapporto del China Rights Observer, gruppo di coraggiosi attivisti con base nella provincia centrale dell’Hubei, svela che nel 2015 ci sono stati più di 30 casi di attivisti cinesi rinchiusi in ospedali psichiatrici senza alcuna necessità medica, ma solo per farli sparire per un po’. «Quando il governo ha approvato la legge sulla salute mentale voleva limitare il fenomeno», spiega il fondatore del gruppo e autore del rapporto, Liu Feiyue. «Ma da quello che abbiamo constatato, questi crimini continuano a verificarsi».
«VOLEVO MORIRE». Soprattutto nei «periodi più sensibili», ad esempio durante l’annuale sessione di lavori del “Parlamento”, molti attivisti vengono presi e rinchiusi negli ospedali. Tra questi c’è Lu Liming, attivista di Shanghai, imprigionato in una clinica di Pechino dagli “intercettatori” assunti dal governo locale per impedirgli di portare una petizione. «Io sono normalissimo, non ho nessuna malattia mentale. Mi hanno legato a un letto dell’ospedale di Changping per due giorni e due notti», racconta. «Mi hanno obbligato ad assumere molti medicinali mentre mi tenevano legato e sono stato così male che volevo morire. Ancora oggi, a causa delle percosse, la mia testa è gonfia e mi fa male».
«MEZZO DI REPRESSIONE». «Chi porta petizioni al governo centrale o provinciale, per quanto sia legale, è considerato un nemico», spiega ancora Liu. «Il sistema di sorveglianza è sempre più rigido e qualunque cosa possa minacciare il mantenimento del potere da parte del partito è visto come una minaccia. Gli ospedali psichiatrici sono solo un mezzo di repressione tra gli altri». Chi viene rinchiuso, spesso si ritrova polsi e caviglie ammanettati, è costretto ad assumere psicofarmaci, senza possibilità di ricevere visite da parenti e amici.
DICHIARAZIONI DA FIRMARE. Gli ospedali non rilasciano i “pazienti” fino a quando non c’è il consenso della polizia, che solitamente arriva solo dopo che gli attivisti firmano documenti in cui si impegnano a non portare mai più petizioni al governo. A volte però può accadere anche di peggio. Per punire Zhu Jindi, attivista di Shanghai, la polizia non ha rinchiuso lei ma suo figlio in una clinica.
PANCA DELLA TIGRE. «L’hanno rinchiuso per 51 giorni e nessuno della nostra famiglia è stato informato», testimonia la madre. «Poi un giorno un tribunale ha sentenziato che doveva ricevere trattamenti psichiatrici. Durante il soggiorno è stato legato alla “panca della tigre” (nella foto, nome di una tortura molto usata, ndr) giorno e notte. L’hanno poi legato mani e piedi al letto, costretto a urinarsi e defecarsi addosso».
Foto Ansa
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