La preghiera del mattino

Perché gli attacchi dei macroniani all’Italia lasciano la sinistra in imbarazzo

Gérald Darmanin e Emmanuel Macron
Il ministro dell’Interno francese Gérald Darmanin (a sinistra) con il presidente Emmanuel Macron (foto Ansa)

Su Fanpage Luca Pons scrive: «“Il governo italiano ha certamente molte difficoltà ad affrontare l’emergenza migranti ed ha sicuramente commesso degli errori, anche nei confronti della Francia. Tuttavia questo non autorizza un ministro francese ad emettere giudizi sull’operato del nostro presidente del Consiglio. Da italiana, ritengo che le parole del ministro Darmanin siano del tutto inappropriate”. Ha risposto così Mariastella Gelmini, portavoce di Azione, seguita a ruota da Carlo Calenda su Twitter: “Sono convinto che il governo, e l’ho detto in Aula, non abbia un piano credibile per gestire i migranti. Ma queste cose si discutono riservatamente in bilaterale e in Ue. Francia e Italia devono collaborare, non scontrarsi”. Il presidente del Pd, Stefano Bonaccini, è intervenuto dai microfoni di Tagadà, su La7: il governo italiano dovrebbe “evitare polemiche” con gli altri paesi europei, ha detto, ricordando che “a seminare vento si rischia di raccogliere tempesta”. Ogni governo “deve rispettare l’altro”, ma “purtroppo la destra nel nostro paese negli anni scorsi ha detto troppe volte ‘prima gli italiani’, ‘è finita la pacchia’, ‘porti chiusi’… Quando poi si è ritrovata a governare il paese, gli sbarchi sono addirittura quadruplicati o quintuplicati”».

L’attacco del ministro dell’Interno francese Gérald Darmanin al governo Meloni è senza dubbio sorprendente, condotto con un’arroganza e malagrazia che ha costretto lo stesso Quai d’Orsay a prendere le distanze. Certo, si comprende il nervosismo di Darmanin per la situazione interna della sua nazione, si coglie il nervosismo di chi ha partecipato all’avventura macroniana di sostituire una sorta di tecnocrazia alla politica, e ne coglie oggi il generale fallimento anche in politica estera, con la presenza di Parigi in Africa ormai allo sbando e con il penoso comportamento da commesso viaggiatore dell’inquilino dell’Elysée a Pechino. Però anche la disperazione politica dovrebbe avere dei limiti. Le reazioni italiane, dalla loro, denunciano nelle diverse forze di centrosinistra una difficoltà di fondo a considerare il ruolo internazionale dell’Italia. Le diverse organizzazioni di centrosinistra, di sinistra e peroniste in questi anni hanno di fatto interpretato il ruolo dell’Italia come una questione che doveva essere risolta “da fuori e dall’alto”, e quando oggi una potenza allo sbando come quella francese offende il nostro Stato, chi è stato subalterno “al fuori e all’alto” non può che manifestare innanzi tutto il proprio imbarazzo, quasi la mancanza di una lingua con cui esprimersi.

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Su Open si scrive: «Sarà Jack Markell il nuovo ambasciatore Usa in Italia, secondo indiscrezioni anticipate dall’agenzia Ansa. La scelta di Joe Biden sarebbe caduta sul 62enne per due volte governatore democratico del Delaware, Stato che l’attuale presidente Usa ha rappresentato in Senato per 36 anni prima di diventare vice di Barack Obama alla Casa Bianca. Laureato alla Brown University, ha conseguito un master all’Università di Chicago. Sposato con Carla, ha due figli, Molly e Michael. Da un anno Markell è stato ambasciatore statunitense presso l’Osce, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico di Parigi. Per alcuni mesi è stato anche coordinare della Casa Bianca per la Operation Allies Refuge, l’operazione con cui gli Stati Uniti hanno portato nel paese alcuni civili afghani come interpreti e dipendenti dell’ambasciata a Kabul, dopo il ritiro militare dall’Afghanistan. La nomina di Markell va a colmare il vuoto lasciato all’ambasciata Usa di Roma, rimasta scoperta per oltre due anni dopo la fine del mandato di Lewis Eisenberg, l’ambasciatore nominato dall’ex presidente Donald Trump. Prima dell’elezione a governatore del Delaware, Markell è stato per 10 anni tesoriere dello Stato. Prima di ricoprire incarichi pubblici, era stato consulente di McKinsey and Company, vicepresidente per lo sviluppo aziendale della società di telecomunicazioni Fleet Call, poi diventata Nextel, ed è stato manager di Comcast Corporation. Markell ha fatto parte di diversi Cda di società quotate e private, oltre che di organizzazioni no profit, come Upstream Usa, Delaware State University, Annie E. Casey Foundation e Jobs for America’s Graduates. È stato Henry Crown fellow e Rodel fellow dell’Aspen Institute».

Tra le cause del nervosismo allo sbando che regna a Parigi c’è anche la decisiva attenzione che Washington ha per Roma, dimostrata dalla scelta di un ambasciatore molto politico e legatissimo a Joe Biden e dalla visita straordinaria dello speaker della Camera americana, il repubblicano Kevin McCharty.

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Su Formiche Riccardo Cristiano riporta e commenta brani di un articolo di Vladimir Pachkov per Civiltà Cattolica: «“Ciò che la politica cinese mostra è che questo paese è capace di muoversi su due fronti – in questo caso con l’Iran e l’Arabia Saudita –, anche quando essi sono nemici tra loro. Nei rapporti con l’Iran e l’Arabia Saudita, la Cina ha evitato di privilegiare o di svantaggiare l’una o l’altra parte. Ci sono molti esempi di questa politica”. E quindi arriva a dirci che “questo approccio calibrato, ma anche la filosofia secondo cui lo sviluppo economico deve costituire il fondamento della sicurezza e il principio di non interferire negli affari interni degli altri paesi, hanno avuto come risultato l’accordo tra l’Iran e l’Arabia Saudita”».

Le pur calibrate e meditate parole di lode alla Cina di padre Pachkov ricordano l’influenza che un certo pensiero cattolico esercita per esempio su un Giuseppe Conte e su un Beppe Grillo, e quindi su un settore non trascurabile della politica italiana che cerca un rapporto con Pechino differente da quello espresso dai principali Stati e partiti politici europei e occidentali, dal centrodestra italiano ai Grünen, dai socialdemocratici ai conservatori scandinavi, tutti assai preoccupati per l’insinuante egemonismo cinese, una realtà considerata pericolosa per chi intende costruire un ordine internazionale attento ai diritti umani fondamentali.

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Sulla Nuova Bussola quotidiana Gianandrea Gaiani scrive: «Fonti ufficiali ucraine hanno già posticipato all’estate la controffensiva “di primavera” anche se è chiaro che ogni dichiarazione in proposito potrebbe perseguire l’obiettivo di ingannare il nemico. Le ragioni del ritardo sono però tutte credibili: in sostanza truppe poco addestrate e armi e munizioni insufficienti. “Siamo grati ai nostri alleati per il loro aiuto militare. Ma non è abbastanza. L’Ucraina ha bisogno di 10 volte di più per porre fine all’aggressione russa quest’anno. Pertanto invitiamo i nostri partner a superare tutte le linee rosse artificiali e a destinare l’1 per cento del loro Pil per le armi all’Ucraina”, ha scritto il 22 aprile su Twitter il viceministro degli Esteri ucraino Andrij Melnyk. Aspirazioni forse velleitarie e pretese eccessive che cozzano contro la realtà di un Occidente e soprattutto di un’Europa che stanno esaurendo le risorse militari trasferibili all’Ucraina senza disarmare le proprie forze armate. Finché il conflitto continua ad avere un’alta intensità è impossibile anche ritenere che la produzione industriale bellica occidentale possa sostenere a lungo le forze di Kiev, considerato che il consumo di munizioni di artiglieria è pari a due-tre volte la capacità produttiva annua di tutte le nazioni della Nato messe assieme».

La situazione internazionale è entrata in una fase particolarmente delicata. Se gli ucraini non riusciranno sconfiggere i russi nei prossimi mesi, si porrà un problema per gli Stati democratici che sostengono la resistenza di Kiev, infatti una mobilitazione generale come quella messa in campo da Mosca può essere contrastata nel medio periodo solo da una contromobilitazione, scelta complessa per chi deve affrontare questioni come il consenso popolare e le sfide elettorali senza una condizione di belligeranza che implichi una situazione d’eccezione nella conduzione dello Stato. Se invece la controffensiva ucraina avrà successo, si porrà la questione di come governare un’eventuale disgregazione della Russia, questione evidentemente complicatissima. Ecco perché si deve mantenere la necessaria coesione occidentale senza furbate alla Macron e senza lasciar spazio alle manovre diversive di Pechino.

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