
Bizzarrie d’Egitto
Il Cairo
Tranquilli, la “polveriera” mediorientale non sta per esplodere a causa del conflitto israelo-libanese, i regimi arabi non stanno per cadere preda degli islamisti o per imbarcarsi in avventure militari sotto l’urto della folla. Le simpatie delle masse e quelle delle élites vanno unanimemente agli “eroi” Hezbollah e la politica oltranzista iraniana guadagna consensi, ma la gente si limita a fare il tifo, senza la minima intenzione di arruolarsi nel jihad contro Israele. Parola di uno che ha trascorso i primi dieci giorni dei bombardamenti israeliani sul Libano al Cairo e in un’altra mezza dozzina di località egiziane.
«Questo regime è dispotico e corrotto, e il suo profilo nell’attuale crisi è veramente basso: siamo diventati i servi degli Usa e di Israele, non godiamo più di nessun prestigio nella regione. Ma la situazione si è fatta molto pericolosa, e spero che i parlamenti e la società civile dei vostri paesi prendano l’iniziativa. Il nostro parlamento non fa nulla, oppure dà la colpa a Hezbollah dichiarando che non hanno visione e che stanno causando la distruzione del Libano: spazzatura!». Anche nei giorni più roventi della crisi non c’è nessun problema ad incontrare al Cairo in casa sua George Ishaq, il portavoce di Kifaya, la coalizione fuorilegge degli oppositori al presidente Mubarak. Il movimento (il cui nome in arabo significa “Basta!”) spara ad alzo zero contro la linea del governo, il quale condanna sia la sproporzionata reazione israeliana che l’avventurismo di Hezbollah. L’unico inconveniente sta nel fatto che prima di sera metà capitale saprà del vostro colloquio con questo ex militante comunista, di estrazione cristiano-copta, il quale si è riciclato come indipendente alla guida della coalizione di nasseriani, comunisti, islamisti e nazionalisti che nel 2004 ha deciso di sfidare il sistema. Il venditore di papiri che travolgendomi di parole e sorrisi cerca di appiopparmi uno dei suoi rotoli mentre vago su e giù per la via alla ricerca dell’indirizzo esatto cambia espressione quando, per dissuaderlo, gli dico che sto andando all’appuntamento con una persona che abita lì: «George Ishaq», pronuncia sicuro di indovinare. E mi conduce di persona al cancello giusto, senza omettere di spiegare a tutti coloro in cui ci imbattiamo durante il tragitto – poliziotti inclusi – che stiamo andando a casa del signor George. Quindi mi preleva un sedicente portinaio che mi porta al piano, ed è raggiunto davanti alla porta da un altro signore. Dopo una mezza dozzina di scampanellate l’uscio si apre. Quando ridiscendo, mezz’ora dopo, due signori seduti all’uscita del palazzo mi salutano con aria compunta.
Insomma, tutto è sotto controllo. Tre giorni prima Kifaya e i Fratelli Musulmani avevano convocato una manifestazione per esecrare la passività del governo e infiammare gli animi contro Israele davanti alla sede dell’Ordine dei Giornalisti, a due passi dal Museo egizio e da Tal’at Harb, il cuore del brulicante struscio del tardo pomeriggio. Non c’erano più di 50 persone a sbracciarsi, fra le quali il 70enne Ishaq munito di megafono, mentre un migliaio di soldati e poliziotti li vegliava e un mare di pedoni e di auto continuava a scorrere indifferente come se non stesse succedendo niente. «Noi sosteniamo Hezbollah. È vero che hanno colpito Israele per primi, ma io sto dalla parte del popolo libanese, che sta pagando un alto prezzo ed è vittima della volontà di Israele di distruggere Hezbollah, con la complicità americana. Nei riguardi dell’Egitto gli Usa giocano con le parole: a volte dicono che vogliono la democrazia, a volte che preferiscono la stabilità con Mubarak. Noi contiamo solo sul nostro popolo, non certo sugli americani. Vogliamo la fine dello Stato di Emergenza, lo Stato di diritto, libertà per i partiti politici e per i sindacati, una conferenza nazionale di leader eletti dal popolo e, dopo due anni di transizione, libere elezioni politiche. Su questi punti c’è il consenso di tutti, dai comunisti agli islamisti. Certo, personalmente non sempre sono d’accordo con quello che dicono i Fratelli Musulmani, ma non li boicotterò mai e poi mai: è gente presente sul terreno, con cui bisogna fare i conti e discutere, e io apprezzo la loro presenza in parlamento. Lei teme che in un Egitto democratico prenderebbero il potere? E io le rispondo: lasciamo che gli egiziani facciano esperienza con la democrazia, lasciamo che ne paghino il prezzo».
Al bar con l’intelligentsia del Cairo
«Non scherziamo su queste cose, il dramma del mio paese e di questa parte del mondo è che i democratici quasi non esistono: né al governo, né all’opposizione, né fra il popolo». Chi parla così è Wa’il Farouq, docente di scienze islamiche presso l’Istituto di Scienze religiose di Sakakini, Cairo. Un personaggio fuori dal comune: non solo si tratta di un musulmano che insegna presso una Facoltà teologica cattolica, creata dai missionari comboniani, ma addirittura di un ex Fratello Musulmano che, attraverso un singolare percorso intellettuale e spirituale, quest’anno approderà al Meeting di Rimini, invitato a presentare niente meno che la traduzione in arabo del Senso religioso di don Luigi Giussani. «La democratizzazione all’americana, come in Irak, porta solo a una politica sempre più teocratica; i poveri delle periferie urbane e delle campagne non possiedono nulla tranne che la loro religione: dategli il voto, e loro voteranno per la religione, non sulla base di valutazioni propriamente politiche. I Fratelli Musulmani lo sanno bene, ed è per questo che oggi si dichiarano favorevoli alla democrazia. Ma questa in realtà non esiste nemmeno all’interno dei partiti che si oppongono al governo: avete notato che negli ultimi anni comunisti, nasseriani e islamisti si sono tutti sdoppiati in due partiti? Sapete per quale ragione? Perché i leader sono dei gerontocrati autoritari che controllano tutto: stanchi di essere trattati come minorenni, i cinquantenni esasperati hanno creato nuove formazioni».
Wa’il, la cui formidabile storia abbiamo raccontato un paio d’anni fa (cfr. Tempi n. 34, 19 agosto 2004), mi fa conoscere Said Shoeib. È il giornalista del quotidiano Al Karama (neonasseriani) che qualche mese fa fece perdere le staffe a Mohamed Akef, guida suprema dei Fratelli Musulmani, durante un’intervista. Lo sceicco giunse a dire che non gli importava nulla dell’Egitto come tale, perché il suo obiettivo è il califfato universale. «Come ci sono riuscito?», risponde il collega alla mia incuriosita ammirazione. «Semplice, facendo il giornalista per davvero. Di solito gli intervistatori mettono il microfono davanti alla bocca di Akef e gli lasciano dire tutto quello che vuole, io invece lo interrompevo e gli facevo domande vere. Lui si è molto arrabbiato perché si considera un’autorità divinamente ispirata: interromperlo mentre parla è un sacrilegio». Per l’impertinenza Said si è beccato le fatwa poco amichevoli degli imam di alcune moschee, ma si è anche guadagnato il rispetto di molti. Non però quello del suo giornale, che ha pubblicato una versione ridotta dell’intervista per non incrinare i rapporti fra nasseriani e islamisti. Per la pubblicazione della versione integrale, il giornalista si è dovuto rivolgere ad un giornale filo-governativo. Incontriamo Said a un tavolino all’aperto di Barabrà, anonimo bar senza insegna sotto la sopraelevata di Zamalek. Nessuno immaginerebbe che, sul marciapiede, fra i gas di scarico delle auto, si riunisce il fiore dell’intelligentsia laica del Cairo. In dieci minuti mi ritrovo seduti accanto il romanziere Baha Taher (premio Acerbi in Italia), il direttore del quotidiano Al-Arabi e Ala Al-Aswani, l’autore del best seller Palazzo Yacoubian (Feltrinelli 2006) da cui è stato tratto un film che sta spopolando. Fra i temi del libro: la prostituzione, l’omosessualità, il terrorismo.
Mentre gli avversari politici di Mubarak non riescono a fare a meno di genuflettersi di fronte agli islamisti, indispensabili alleati, altri settori della società mostrano crescente insofferenza. È il caso delle donne coinvolte nel progetto congiunto del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Pnud) e del Consiglio nazionale per la maternità e l’infanzia (Nccm) avente per scopo la cessazione delle mutilazioni genitali femminili.
Fiori d’acciaio a Beni Suef
Non tutti sanno che in Egitto il 96 per cento delle donne fra i 15 e i 49 anni è stato sottoposto all’ablazione del clitoride. La stragrande maggioranza degli islamisti è favorevole a questa cruenta pratica. Certamente non sulla base del Corano, che non contiene nulla sull’argomento (la clitoridectomia risale all’epoca dei faraoni ed è praticata anche presso la minoranza cristiano-copta), ma in nome dell’ordine morale. «Nel mio villaggio» racconta la giovane Aicha durante un incontro organizzato per me dall’Nccm nella località di Beni Suef con una trentina di donne coinvolte nel programma «ci sono molti studenti dell’università di Al Azhar: insistono che una moglie fedele e timorata di Dio deve essere senz’altro una donna circoncisa».
Sì, i custodi islamisti dell’ordine morale sono convinti che l’adulterio si previene mutilando le donne. E certamente sono preoccupati del fatto che negli ultimi dieci anni la percentuale delle donne intenzionate a imporre alle figlie tale tradizione è scesa dall’82 al 68 per cento. Così come del fatto che quattro Comuni hanno recentemente firmato un impegno pubblico a cessare le mutilazioni. Ancora di più si preoccuperebbero se sapessero che nelle 120 località dove il programma è presente Ong musulmane e Ong cristiano-copte lavorano fianco a fianco, come ho potuto verificare a Beni Suef. La traduttrice velata dell’Nccm dopo un po’ è stanca e si sceglie una sostituta. Prega di prendere il suo posto un’altra donna che porta il velo: non dell’hijab però si tratta, ma di un velo cristiano. A tradurre il mio dialogo con donne in maggioranza musulmane sarà, fino alla fine, suor Yoanna dell’Ong cristiano-copta Cost. Ad Akef saranno ronzate le orecchie.
Rodolfo Casadei
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