Così Bce, sanzioni e politiche green ci conducono verso la recessione

Di Lorenzo Castellani
13 Giugno 2022
Mentre la crisi avanza a grandi passi, servirebbe un atteggiamento meno dirigista a livello europeo e nazionale che preveda di accostare politiche di detassazione sull’impresa e sul lavoro all’emissione di nuovo debito europeo. Invece si fa filosofia
Christine Lagarde Bce
Christine Lagarde, Presidente della Banca centrale europea (foto Ansa)

Di fronte al momento che stiamo vivendo si possono assumere due atteggiamenti: uno idealistico e intransigente, l’altro realista e pragmatico. Il primo prevede una critica spietata del sistema europeo: le alchimie monetarie col Qe e sullo spread per allontanare le crisi, i debiti pubblici alle stelle, un Pnrr troppo burocratico e dirigistico, l’impossibilità di sostenere in eterno i debiti sovrani con la banca centrale, l’irresponsabilità di una classe politica rifugiatasi tutta nella spesa pubblica. Il gioco delle colpe è oramai poco utile, soprattutto in uno scenario stravolto dalla pandemia, dalla guerra in Ucraina e dallo stato di tensione tra Stati Uniti e Cina. Il secondo atteggiamento è, per così dire, più preoccupato per la “sopravvivenza” delle economie sulla base della situazione che si è oramai manifestata – inflazione, scarsità di materie prime, spettro della recessione, scenario geopolitico critico – e cerca di guardare con pragmatismo al futuro.

Probabile recessione in vista

Quel che è quasi certo è che le decisioni della Bce e l’aumento dei prezzi delle materie prime condurranno probabilmente a una recessione. Le sanzioni verso la Russia e le politiche green manterranno al rialzo i prezzi delle materie prime con conseguenze sull’inflazione. E quando in Cina termineranno i lockdown dovuti al Covid probabilmente il prezzo del petrolio crescerà ancora. L’aspetto più critico delle recenti decisioni della Banca centrale europea riguarda il modo in cui è stato comunicato l’eventuale adozione di un backstop per contenere gli spread. Christine Lagarde, infatti, ha solo vagamente accennato a questo strumento senza però formalizzarlo. Insomma dal whatever it takes di Draghi siamo passati al whatever it is, un immobilismo finanziario che al massimo segue il libretto classico delle istruzioni.

È probabile che questa incertezza nell’azione spinga gli operatori finanziari a “vedere il bluff”, a cercare di capire cioè quale sarà il livello di tolleranza dell’Eurotower prima di attivare effettivamente lo strumento. D’altronde negli ultimi mesi sono già scaturite dinamiche di ulteriore ampliamento degli spread e in particolare di quello italiano e di quello spagnolo nei confronti del Bund. Una situazione che indebolirà l’euro con effetti sull’import e quindi sull’inflazione. Un possibile raggiungimento della parità nei confronti del dollaro e quindi anche il mancato effetto calmiere sull’inflazione. Perché con un euro che si deprezzerà ulteriormente il costo della materia prima che noi importiamo dall’estero aumenterà. In questo scenario, non è detto che l’aumento dei tassi conduca ad una immediata riduzione dell’inflazione per una serie di motivi.

Green sì, ma a quale prezzo economico e politico?

Il primo è legato al fatto che sull’energia il livello delle sanzioni spingerà la Russia a compensare il calo dei volumi con un taglio produttivo. Questo lo abbiamo già visto nel caso del gas: l’export russo verso l’Europa è sceso di circa il 30 per cento da inizio anno, eppure il prezzo del gas al Ttf ha una media parziale oggi di 98 euro/Mwh contro la media del 2021 che era di 48 euro. E sul petrolio accadrà verosimilmente la stessa cosa. Il Brent veleggia stabilmente sopra i 120 dollari al barile perché l’effetto delle sanzioni ha più che compensato il leggero aumento produttivo dell’Opec+ e anche l’immissione delle riserve annunciato dalla amministrazione Usa.

C’è poi la questione climatica con l’Europa che si è posta obiettivi assolutamente ambiziosi. La mancata revisione dei piani climatici, che rivestono un ruolo enorme nel rendere più tesa di quanto già non sia l’offerta nel comparto delle materie prime, può essere esiziale per la piega che prenderà la crisi. Continuare a insistere sulla transizione ecologica, che restringe l’offerta dei fossili e aumenta il consumo delle altre materie prime, tira al rialzo tutti i prezzi e non è più vantaggioso per i paesi europei. Senza contare quanto l’eolico e il solare avvantaggino i produttori cinesi della componentistica di questi impianti, molto più avanzati in questo settore rispetto ai pochi produttori europei. Lo stesso vale per l’auto elettrica, anch’essa di recente magnificata e incentivata dalle burocrazie europee. Green sì, ma a quale prezzo economico e politico? È la domanda che quasi nessuno ha il coraggio di farsi.

Cosa avrebbe dovuto fare la Bce

Dunque, non ci sono elementi oggi per pensare a un raffreddamento del prezzo delle materie prime se non quello di una profonda recessione. Anche le decisioni dei governi di adottare stimoli e sostegni sul fronte fiscale per compensare l’effetto delle bollette è comprensibile, a livello politico e sociale, ma andrà a rinviare ulteriormente l’effetto di distruzione della domanda che rappresenta oggi l’unico elemento che può raffreddare i prezzi. L’aspetto ancora più preoccupante è che nel dibattito sia mancato un accenno al ruolo che l’offerta deve avere per scongiurare l’impennata dell’inflazione. Tutto il dibattito politico si focalizza sulla domanda ma non si fa accenno al vero elemento che può raffreddare l’inflazione, ovvero l’aumento della capacità produttiva. Questo è un punto chiave poiché l’alternativa è il ricorso alla sola distruzione della domanda per abbassare i prezzi, pagando lo scotto di una recessione.

Cosa avrebbe dovuto fare la Bce? Mettere fin da subito in campo una garanzia sugli spread che, se lasciati rialzare, potranno condurre a gravi conseguenze politiche, economiche e sociali come ben sappiamo. Dall’altro lato, l’Unione Europea dovrebbe prendere atto che l’ideologia ambientalista è dannosa in questo momento e che un congelamento degli obiettivi green è giustificato dall‘emergenza economica. Servirebbe poi un terzo, ancora meno probabile, punto: un nuovo accordo europeo che lasci risorse fiscali agli Stati per aumentare le produzioni strategiche, come l’acciaio, e per ridurre il costo del lavoro al fine di alzare i salari. In generale, sarebbe opportuno un atteggiamento meno dirigista a livello europeo e nazionale che preveda di accostare politiche di detassazione sull’impresa e sul lavoro all’emissione di nuovo debito europeo. Il resto è filosofia, mentre la crisi avanza a grandi passi.

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