
Su Fanpage Saverio Tommasi scrive: «Concepire lo studio come una corsa solitaria fra pochi ritenuti più capaci sviluppa il concetto “morte tua vita mia”, che al di là del sottoporre uno studente o una studentessa a uno stress quotidiano, è anche il contrario della possibilità di uscire da quella scuola con le capacità necessarie per lavorare in un team, o appunto per dirigerlo. Attenzione, perché ogni deriva parte da una parola. E oggi il rischio che un battito d’ali in una scuola di periferia produca adulti non formati e infelici vent’anni dopo in tutto il paese, è altissimo».
Alcune cose scritte da Tommasi sul fatto che la scuola non deve solo “formare” ma anche “educare”, cioè dare valori generali a tutti senza scale di merito, sono sacrosante. Però l’idea che il governo Meloni cercando di dare peso al “merito” nella formazione scolastica, contribuisca a costruire una società più classista, è una tesi sostenuta da “un marziano” che non tiene conto come in questi ultimi decenni questa divisione ultraclassista si è già largamente realizzata, determinando una “generazione Erasmus” integrata a livello internazionale e una “neet” (né studio né lavoro) orientata come unico obiettivo a ottenere un reddito di cittadinanza e programmi Netflix a sei euro al mese. E oggi, per superare l’ultradiffuso stato da generazione “neet”, di fatto l’unica soluzione è una scuola che spinga a qualificarsi, a studiare rigorosamente, a prepararsi a lavori seri che diano dignità alla propria vita. Comunque proprio il tema dell’educazione e dell’informazione dimostra come una politica senza cultura troverà sempre un qualche Tommasi che dice cose in parte giuste ma foriere di conseguenze catastrofiche. In questo senso chi non capisce come una tendenza politica come quella neoconservatrice che si sta delineando abbia bisogno anche di sedi (associazioni, fondazioni, iniziative editoriali) di elaborazione culturale, non comprende le sfide concrete del momento e pensa che le idee siano caciocavalli appesi che basta volerli e li si coglie.
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Su Huffington Post Italia Giuseppe Colombo scrive: «Innanzitutto farsi vedere. Su Facebook, dove compare alle nove e mezza di mattina seduto alla scrivania del ministero, intento a sfogliare una pila di documenti. Qualche ora dopo al tavolo con l’ammiraglio Nicola Carlone, il comandante generale della Guardia costiera. E lo storytelling non si ferma qui. Ancora, nell’ufficio romano della Lega, con una statuetta di Alberto da Giussano sullo sfondo, lui al centro e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti di lato».
Un ampio arco di media mainstream spera, come in questa citazione, che Matteo Salvini in preda a una nuova sfrenata sindrome Papeete possa, magari con il contributo di Giorgio Mulé, sfasciare presto il governo Meloni in una sorta di raptus alla Liz Truss del tipo “Muoia Sansone con tutti i Filistei”.
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Su Formiche Matteo Turato scrive: «Il Burkina Faso ha subìto, lo scorso mese, il quarto colpo di Stato in due anni, esemplificando la profonda ondata di instabilità che vive oggi l’Africa occidentale. La Francia, storicamente impegnata nell’area subsahariana, sta soffrendo del fallimento delle operazioni “Barkhane” e “Takuba” e di una generale crisi di legittimità, derivante dall’astio delle popolazioni locali verso quella che viene ancora percepita a tutti gli effetti come una nuova presenza coloniale – presenza per altro inutile visto che ha fallito nella sua missione di portare sicurezza e stabilità nella regione contro i vari gruppi jihadisti che si propagano nell’area».
La geniale trovata di destabilizzare la Libia promossa da Nicolas Sarkozy, aiutato da quell’altro stratega di Barack Obama e per parte italiana da un Giorgio Napolitano che contro i nostri interessi nazionali ha più o meno costretto un debole Silvio Berlusconi a partecipare alla tragica impresa, sta dando i suoi frutti: un continente come l’Africa, fondamentale, innanzi tutto in termini di materie prime, per i destini del pianeta, sta finendo sotto l’influenza di russi, cinesi e turchi. Questa realtà condiziona particolarmente Emmanuel Macron, l’ultimo della filiera di presidenti francesi politicamente inconsistenti del post chiracchismo, e spiega perché l’asse con Roma (dopo avere tentato di massacrare l’Eni) diventa vitale.
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Sulla Zuppa di Porro Max Del Papa scrive: «A chi appartiene la città? Milano poteva contare, a differenza di Roma, dove la res nullius non è di tutti ma proprio di nessuno. C’era in Mediolanum un residuo orgoglio municipale, se passava un autobus con lo stemma comunale i cittadini pensavano: questa è anche roba mia, mi spetta, la voglio a posto e che funzioni. Ma i giardini pubblici di piazza Gobetti sono diventati impraticabili, di notte ospitano risse furibonde tra bande extracomunitarie, lungo le Colonne di San Lorenzo o la Loggia dei Mercanti è meglio non avventurarsi, se esci dalla stazione Centrale o hai l’aspetto di un serial killer o ti conviene sgusciare via alla svelta come un topo, le zone a rischio non si contano più perché lo sono tutte, e nei depositi dei treni metropolitani puoi fare brutti incontri. Ne discende una disillusione, un disamore per la città, non più patrimonio collettivo, non più koiné ma luogo ostile, insidioso: una metropoli straniera, nemica».
Solo Berlusconi mettendo il veto alla candidatura di Gabriele Albertini e favorendo quella di un simpatico sconosciuto, ha potuto regalare (grazie all’astensionismo) la vittoria a un sindaco inadeguato come Beppe Sala.
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