Bari Weiss: «Perché ho lasciato il New York Times e ora combatto la cancel culture»

Di Bari Weiss
22 Marzo 2021
Contro l'ortodossia illiberale della sinistra: nuovo j'accuse della giornalista che ha fatto scalpore dimettendosi dal New York Times in polemica con il conformismo del giornale

Per gentile concessione di Deseret News pubblichiamo di seguito in una nostra traduzione un commento di Bari Weiss apparso nel numero di marzo 2021 dell’omonimo magazine statunitense. L’autrice si è trovata al centro delle cronache di mezzo mondo l’estate scorsa quando si è dimessa polemicamente dal New York Times, denunciando il settarismo e il «bullismo» ideologico del giornale di riferimento della sinistra americana in una dura lettera all’editore che i lettori di Tempi possono recuperare qui. Il testo originale in inglese dell’articolo scritto da Bari Weiss per Deseret è disponibile in questa pagina.

* * *

Conosco molte persone che vivono nella paura di dire quel che pensano davvero. Nell’America rossa [repubblicana, ndt] e nell’America blu [democratica, ndt] – e forse ancora di più nel web rosso e nel web blu – siamo in preda a un’epidemia di auto-silenziamento. Ciò che si censura, ovviamente, dipende da dove ci si trova.

Bri Weiss
Bari Weiss

I miei amici liberal che vivono nell’America rossa confessano di evitare le discussioni su mascherine, Dominion [sistema per il voto elettronico accusato dai trumpiani di avere avuto un ruolo in presunti brogli a novembre, ndt], Ted Cruz, Josh Hawley, le elezioni 2020 e Donald Trump, per dirne solo alcune. Quando coloro che dissentono dalla maggioranza esprimono quello che pensano, ne pagano le conseguenze. Penso qui a un mio amico, lo scrittore conservatore David French, che per quattro anni ha sopportato una valanga di attacchi terrificanti a lui e alla sua famiglia per aver criticato l’amministrazione Trump, tanto da richiedere alla fine l’intervento dell’Fbi.

Ma sono due le culture illiberali che stanno divorando il paese. Lo so perché vivo nell’America blu, in un mondo inondato di borsoni NPR [National Public Radio, emittente ritenuta di sinistra, ndt] e di insegne da giardino che annunciano le credenziali di giustizia sociale della famiglia residente.

Nella mia America la gente che resta in silenzio non teme l’ira dei sostenitori di Trump. Teme la sinistra illiberale.

Sono femministe che credono che esistano differenze biologiche tra uomini e donne. Giornalisti che credono che il loro lavoro sia dire la verità sul mondo, anche quando non conviene. Medici il cui unico credo è la scienza. Avvocati che non scendono a compromessi sul principio per cui la legge è uguale per tutti. Professori che cercano la libertà di scrivere e di fare ricerca senza paura di essere denigrati. Insomma, sono centristi, libertari, liberali e progressisti che non sposano ogni singolo aspetto della nuova ortodossia dell’estrema sinistra.

Dopo che l’estate scorsa mi sono dimessa dal New York Times per l’ostilità del giornale alla libertà di espressione e di indagine, ho iniziato a ricevere quasi quotidianamente notizie da persone così. I loro messaggi mi sembrano come lettere inviate clandestinamente da una società totalitaria.

Mi rendo conto che possa apparire isterica. Vi chiedo dunque di esaminare qualche esempio tratto dalla mia casella di posta.

«Non avrei mai pensato di praticare il tipo di autocensura che applico adesso quando faccio le mie proposte ai direttori, ma oggi non ho quasi possibilità di fare altrimenti», scrive un giovane giornalista. «I giovani autori woke-scettici [il termine woke individua in generale i militanti delle varie cause sociali progressiste, ndt] devono aspettarsi la messa al bando e il ripudio se solo provano a deviare, anche minimamente, dalla sacra ideologia della wokeness».

«L’autocensura è la norma, non l’eccezione», racconta uno studente di una delle più importanti facoltà di legge del paese, scrivendo dalla sua email personale per timore di usare il suo account ufficiale dell’ateneo. «Io mi autocensuro anche quando parlo con alcuni dei miei migliori amici per paura che si sparga la voce». In pratica tutta la facolà sottoscrive la medesima ideologia, continua lo studente. E così, confessa, «agli esami mi sforzo di scrivere risposte che rispecchino la loro visione del mondo anziché riportare le tesi migliori che conosco».

Viviamo nella società più libera della storia del mondo. Qui non ci sono i gulag che c’erano in Unione Sovietica. Formalmente non c’è alcun sistema di credito sociale come invece c’è in Cina. Eppure le parole che in genere associamo alle società chiuse – dissidenti, liste nere, double thinkers – sono esattamente quelle che balzano alla mente quando leggo i messaggi appena citati.

La visione liberale che abbiamo dato per scontata in Occidente dalla fine della Guerra fredda fino a solo cinque anni fa è sotto assedio oggi. È assediata a destra dalla rapida diffusione dei culti internettiani e delle teorie complottiste. Basta pensare all’onorevolve Majorie Taylor Green, una che crede sfacciatamente a QAnon ed è appena stata eletta al Congresso.

A sinistra, il liberalismo è assediato da una nuova ortodossia illiberale che si è radicata dappertutto, comprese le stesse istituzioni incaricate di tenere in piedi l’ordine liberale. E l’arma più efficace di questa ideologia è la cancellazione. La cancellazione è utilizzata nel medesimo modo in cui le società antiche mettevano al rogo le streghe: per incutere paura nei cuori di quelli che stanno a guardare. Il punto è l’affermazione del potere. Mostrandoci che i prossimi potremmo essere noi, siamo costretti a conformarci e obbedire, restando in silenzio o magari offrendo noi pure il nostro legnetto da ardere.

Forse siete anche voi tra questa maggioranza che si auto-silenzia. È probabile che sia così, se ha ragione il biologo Bret Weinstein quando osserva che la popolazione si compone di quattro gruppi: i pochi che danno concretamente la caccia alle streghe, un ampio gruppo che si mette al seguito e un gruppo ancora più ampio che resta in silenzio. C’è anche un gruppo minuscolo che si oppone alla caccia. E quelli che stanno in quest’ultimo gruppo, «come per magia, diventano streghe».

Parlo a nome dell’ultima categoria. Consentitemi, in questo saggio breve, di provare a convincervi che ogni cosa che rende l’America eccezionale, ogni cosa che rende la civiltà degna di questo nome, dipende dalla disponibilità a impugnare un manico di scopa.


Sono nata nel 1984, il che mi situa nell’ultima generazione che ha visto la luce in America prima che esistesse l’espressione “cancel culture”. Il mondo in cui sono nata era liberale. Non nel senso fazioso del termine [liberal in inglese significa anche progressista, ndt], bensì nel senso classico e dunque più ampio del termine. C’era allora una diffusa visione liberale condivisa da liberal e conservatori, repubblicani e democratici.

Tale visione contava su alcune verità fondanti che parevano ovvie quanto l’azzurro del cielo: la convizione che tutti sono creati a immagine di Dio; la convinzione che tutti sono uguali per questo; la presunzione di innocenza; una repulsione verso la giustizia sommaria; l’impegno per il pluralismo e la libertà di espressione, e per la libertà di pensiero e di fede.

Come ho ricordato altrove, questa visione del mondo riconosceva che ci sono interi ambiti della vita umana collocati al di fuori della politica, come l’amicizia, l’arte, la musica, la famiglia e l’amore. Era possibile che i giudici della Corte suprema Antonin Scalia e Ruth Bader Ginsburg coltivassero la migliore delle amicizie perché, come disse una volta lo stesso Scalia, certe cose sono più importanti dei voti.

Soprattutto, questa visione del mondo insisteva sul fatto che ciò che ci lega non è il sangue o la terra, ma la dedizione a un insieme condiviso di idee. Con tutti i suoi fallimenti, la cosa che rende grande l’America è che essa rappresenta il distacco dalla nozione, tuttora prevalente in tanti altri posti, per cui la biologia, il luogo di nascita, la classe sociale, il rango, il genere, la razza siano un destino. I nostri secondi padri fondatori, abolizionisti come Frederick Douglass, erano testimonianze viventi di questa verità.

Quella vecchia visione condivisa – ogni suo singolo aspetto – è stata travolta dalla nuova ortodossia liberale. Poiché questa ideologia si ammanta del linguaggio del progresso, tanti comprensibilmente si lasciano ingannare dal brand che si è auto-attribuito. Non fatelo. Essa promette giustizia rivoluzionaria, ma minaccia di trascinarci in un passato dove siamo tutti schierati uno contro l’altro secondo la tribù di appartenenza.

Il metodo principale di questo movimento ideologico non è costruire o rinnovare o riformare, ma abbattere. La persuasione è rimpiazzata dalla pubblica gogna. Il perdono è rimpiazzato dalla punizione. La pietà è rimpiazzata dalla vendetta. Il pluralismo dal conformismo; il dibattito dal de-platforming [divieto di fare intervenire in pubblico determinate personalità, ndt]; i fatti dai sentimenti; le idee dall’identità.

Secondo il nuovo illiberalismo il passato non può essere compreso nei suoi termini propri, ma deve essere giudicato attraverso la morale e i costumi del presente. L’educazione, secondo questa ideologia, non è insegnare alle persone come pensare, bensì dire loro cosa pensare. Tutto quanto sopra è il motivo per cui William Peris, docente alla UCLA [University of California, Los Angeles, ndt] e veterano dell’aeronautica, è stato sottoposto a procedimento disciplinare per aver letto in aula ad alta voce la Lettera dal carcere di Birmingham di Martin Luther King Jr. O per cui un distretto scolastico della California ha vietato Il buio oltre la siepe di Harper Lee, Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain e Uomini e topi di John Steinbeck. O per cui il comitato di gestione delle scuole di San Francisco ha votato a favore della rinominazione di 44 istituti, compresi quelli intitolati a George Washington, Paul Revere e Dianne Feinstein – avete letto bene – a causa di vari peccati.

In questa ideologia, se non twitti il giusto tweet o non condividi il giusto slogan o non posti il giusto motto e la giusta foto su Instagram, la tua vita intera può essere rovinata. Se pensate che io stia esagerando, date un’occhiata alla vicenda di Tiffany Riley, la preside di una scuola pubblica del Vermont licenziata questo autunno perché ha dichiarato di sostenere le vite dei neri ma non l’organizzazione Black Lives Matter.

In questa ideologia, le intenzioni non importano un fico secco. Chiedete a Greg Patton. In autunno il professore di comunicazione aziendale alla USC [University of Southern California, ndt] stava facendo lezione in aula sulle “parole superflue” – come “um” e “like” e così via – per il suo corso di master. In Cina, ha ossevato, «la classica parola superflua è “che che che”. In cinese sarebbe…», e ha pronunciato un termine cinese che suonava come un insulto razzista inglese.

Alcuni studenti si sono offesi e hanno scritto una lettera al decano della facoltà di economia accusando il loro professore di «negligenza e disprezzo». E hanno aggiunto: «Non dovremmo trovarci a combattere in aula per il nostro senso di pace e benessere mentale».

Invece di rispondere loro che le loro affermazioni erano follia, il decano si è arreso alla pazzia: «Per la facoltà è semplicemente inaccettabile l’utilizzo in aula di parole che possono emarginare, causare sofferenza e danneggiare la sicurezza psicologica dei nostri studenti». Patton è stato sospeso dall’insegnamento nel corso, e la sempre più elastica nozione di “sicurezza” è stata brandita, ancora una volta, come un’arma poderosa.

Il vittimismo, in questa ideologia, conferisce forza morale. «Penso, dunque sono» è sostituito da: «Sono, dunque so», e «so, dunque ho ragione».

In questa ideologia, tu sei colpevole dei peccati di tuo padre. In altri termini: tu non sei tu. Sei solo un mero avatar della tua razza o della tua religione. E il razzismo non riguarda più la discriminazione sulla base del colore della pelle di qualcuno. Il razzismo è qualunque sistema che consenta risultati diversi tra diversi gruppi razziali. Per questo le città di Seattle e San Francisco hanno rivisitato l’algebra perché razzista. Per questo, ancora, una Smithsonian Institution l’estate scorsa ha stabilito che il duro lavoro, l’individualismo e la famiglia sono caratteri “bianchi”.

In questa ideologia totalizzante, puoi essere colpevole per prossimità. Un imprenditore palestinese di Milwaukee, Majdi Wadi, è stato quasi ridotto sul lastrico quest’estate per i tweet razzisti e antisemiti scritti dalla figlia adolescente. Un calciatore professionista è stato licenziato a causa dei post di sua moglie. Ci sono centinaia di esempi simili. L’illuminismo, per dirla con il critico Ed Rothstein, è stato rimpiazzato dall’esorcismo.

Cosa forse più importante, in questa ideologia, la parola – il modo in cui si risolvono i conflitti nelle società civilizzate – può essere violenza, mentre la violenza, se esercitata dalle persone giuste perseguendo una giusta causa, non è affatto violenza.

È così che, in giugno, più di 800 miei ex colleghi del New York Times hanno dichiarato che un commento del senatore Tom Cotton li aveva messi in «pericolo», mentre la più celebrata giornalista della testata – ultima vincitrice del premio Pulitzer – ribadiva pubblicamente che saccheggi e rivolte sono «non violenza». Quella giornalista, creatrice del Progetto 1619 [colossale iniziativa editoriale del Nyt che mira a riscrivere la storia americana come storia di un impero fondato sullo schiavismo, ndt], continua a essere mitizzata. Intanto i redattori che avevano pubblicato il commento sono stati umiliati pubblicamente e allontanati dal giornale.

Si può dissentire dalla tesi esposta da Tom Cotton – il senatore invocava l’impiego della Guardia nazionale per mettere fine alle rivolte dell’estate – e insieme credere, come me, che non ci si può definire il quotidiano di riferimento e ignorare le opinioni di metà del paese.

Mi sono dimessa poche settimane dopo quell’episodio vergognoso, convinta che non ci fosse possibilità di rischiare intellettualmente in un giornale che si piega come una tenda davanti alla folla. Come ho scritto nella lettera di dimissioni, «sono tutti brutti segnali, specialmente per i giovani autori indipendenti e per i redattori particolarmente attenti a quello che devono fare per avanzare nella carriera. Regola uno: esprimi le tue idee a tuo rischio e pericolo. Regola due: non arrischiarti a commissionare un articolo che contraddica la narrazione. Regola tre: mai credere a un direttore o a un editore che ti invita ad andare controcorrente. Alla fine l’editore si piegherà al volere della folla, il direttore sarà licenziato o assegnato ad altra mansione e tu sarai abbandonato».


Il lettore scettico giustamente obietterà che le culture hanno sempre avuto dei tabù. Che ci sono sempre stati comportamenti o parole considerati inaccettabili. L’ostracismo ci accompagna fin dai tempi della Bibbia e la gogna è da tempo un modo per le tribù e le culture di conservare le usanze sociali importanti.

Tutto vero. Ma quella che chiamiamo cancel culture rappresenta una deviazione dai tabù tradizionali, in due modi.

Il primo è la tecnologia. Peccati che un tempo sarebbero rimasti confinati nella pubblica piazza o nel municipio locale ora sono a disposizione di tutto il mondo per l’eternità. In questa nostra era del Big Tech non esiste possibilità di trasferirsi in un’altra città e ricominciare, perché la nuvola di tutti i nostri post e simili resta sospesa per sempre sulla nostra testa.

Il secondo è che nel passato i tabù delle società erano in genere stabiliti attraverso una visione culturale diffusa. I tabù di oggi, invece, sono spesso idee radicali sospinte da una congrega di infervorati che tentano di ridefinire cosa sia accettabile e cosa dovrebbe essere evitato. È un gruppo che controlla quasi tutte le istituzioni che producono la vita culturale e intellettuale americana: di sicuro i media, ma anche l’istruzione superiore, musei, case editrici, squadre del marketing e della pubblicità, Hollywood, l’istruzione primaria e secondaria, le aziende tecnologiche e sempre più le funzioni risorse umane delle grandi imprese.

Non dovrebbe perciò sorprendere che un recente studio del Cato Institute ha rilevato che il 62 per cento degli americani dice di autocensurarsi. Più un gruppo è conservatore e più tenderà a nascondere le proprie idee: ammette di autocensurarsi il 52 per cento dei democratici, contro il 77 per cento dei repubblicani.

E per forza hanno paura. In un’era in cui la gente viene denigrata per cose trascurabili, lagnanze insignificanti e divergenze di opinione in un ambiente che si presume liberale e tollerante, chi oserebbe rendere noto il proprio voto per un repubblicano?


Ma nessuno entra in un gruppo per sentirsi male. Le persone entrano nei gruppi che le fanno sentire bene, che danno loro un significato, che offrono un senso di appartenenza. Motivo per cui così tanta gente della mia generazione e più giovane ancora è attratta da questa ideologia. Non credo che sia perché le manchi l’intelligenza o perché siano tutti fiocchi di neve.

L’ascesa di questo movimento è avvenuta sullo sfondo di grandi cambiamenti nella vita del paese: la lacerazione del nostro tessuto sociale, la perdita della religione e il declino delle organizzazioni civili, l’emergenza oppiacei, il collasso dell’industria, il trionfo di Big Tech, la scomparsa della fiducia nella meritocrazia, l’arroganza delle nostre élite, il succedersi di crisi finanziarie, un dibattito pubblico intossicato, il debito devastante accumulato dagli studenti, la morte della fiducia. È avvenuta in un contesto in cui il sogno americano sembra esaurirsi e le diseguaglianze della nostra presuna meritocrazia equa e liberale sono evidentemente distorte a vantaggio di alcuni e a danno di altri.

«Mi sono convertito perché ne avevo bisogno e vivevo in una società in disintegrazione assetata di fede». Così scrisse Arthur Koestler nel 1949 a proposito della sua infatuazione per il comunismo. Lo stesso si può dire di questa nuova fede rivoluzionaria.

Se vogliamo che le nostre giovani menti brillanti respingano questa visione del mondo, dobbiamo affrontare questi problemi perché senza questi malanni non avremmo avuto né Donald Trump né la rivoluzione culturale che sta trasformando dall’interno le più importanti istituzioni d’America.

Da qualche parte però dobbiamo cominciare e l’unico posto da cui possiamo partire è un appello al coraggio e al dovere.

È nostro dovere resistere alla folla in questa epoca di pensiero di massa. È nostro dovere dire la verità in un’epoca di menzogne. È nostro dovere pensare liberamente in un’epoca di conformismo.

Come ha detto perfettamente una volta il grande giudice americano Learned Hand, «la libertà si trova nel cuore degli uomini e delle donne; quando muore là dentro, nessuna costitizione, nessuna legge, nessun tribunale può fare granché per soccorrerla».

Tenere vivo lo spirito della libertà in un’epoca di illiberalismo strisciante è niente meno che il nostro obbligo morale. Dipende tutto da questo.

Foto di Newtown grafitti, licenza CC BY 2.0

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