Banche popolari modello Unipol?

Di Mariarosaria Marchesano
18 Febbraio 2017
Come coniugare la riforma Renzi con le esigenze e le aspettative di tanti piccoli risparmiatori? I correttivi proposti da un gruppo di economisti

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – La legge sulle banche popolari voluta dal governo Renzi, più che una riforma, si è rivelata un pasticcio burocratico frutto di errate o superficiali valutazioni e sovrapposizioni di potere con assenza di regia istituzionale. Eppure, le banche popolari italiane rappresentano un universo di oltre un milione di risparmiatori che hanno creduto nelle banche dei territori, cioè in quegli istituti di credito che sostengono le economie locali e sono vicini alle famiglie e alle imprese. Quest’universo appare oggi spaesato di fronte a un succedersi di eventi che negli ultimi tempi hanno stravolto la natura di queste banche e, di conseguenza, tradito la fiducia di tutte quelle persone che nelle popolari hanno investito i propri risparmi, partecipando alla gestione grazie soprattutto a un modello imperniato sul voto capitario (una testa, un voto).

Delle nove banche popolari (su un totale di 33) soggette alla trasformazione in società per azioni in base alla legge di riforma approvata nel 2015 (trasformazione obbligatoria per quelle che superano il tetto di 8 miliardi di euro di patrimonio), sette si sono adeguate, non senza traumi interni, e due hanno “resistito” – Popolare di Sondrio e Popolare di Bari – rinviando la convocazione delle assemblee grazie agli spazi di manovra che si sono creati dopo l’emissione dei provvedimenti del Consiglio di Stato. Tra le sette che si sono messe in regola, però, almeno una – Bpm – ha visto crescere il malcontento nella base al punto di spingere un gruppo di soci a impugnare la delibera. In altri casi, soprattutto in territorio veneto (leggi Popolare di Vicenza e Veneto Banca) si ragiona su azioni analoghe dopo che, tra l’altro, il fondo Atlante è stato costretto a intervenire con pesanti ricapitalizzazioni.

Ad aprire la strada ai ricorsi è stato, appunto, il Consiglio di Stato che a fine 2016 si è pronunciato a favore della salvaguardia del voto capitario nell’attuazione del processo di riforma smentendo così la Banca d’Italia e la sue direttive emanate all’indomani dell’approvazione della legge. Ora il rischio è che tale malcontento si estenda a macchia d’olio (non solo tra le popolari, ma anche tra le banche di credito cooperativo) e che i tribunali vengano affollati da una valanga di nuove cause. Tanto più che la Corte Costituzionale deve ancora pronunciarsi sulle istanze presentate dallo stesso Consiglio di Stato in relazione alla legittimità costituzionale della legge e sulle questioni legate al diritto di recesso dei soci (in questo caso il nodo è il prezzo).

Un’ipotesi messa nero su bianco
Insomma, il risultato rischia di essere una situazione ingovernabile aggravata da un altro problema, fino ad oggi sottovalutato ma che rischia di diventare esplosivo: la difficoltà per i soci delle popolari non quotate in Borsa di liquidare il proprio investimento. In altre parole, di vendere le azioni recuperando i soldi investiti senza registrare forti perdite (vedere box in pagina). Di fronte a quest’impasse, che non è la solita questione di salotti e poteri finanziari ma coinvolge miliardi di euro di risparmi, il gruppo di studio che è stato finora artefice delle iniziative in difesa delle banche popolari, composto da economisti e giuristi, tra i quali Marco Vitale e Stefano Zamagni, sta ragionando sulle azioni da intraprendere per raddrizzare gli effetti della riforma, salvando soprattutto i valori di partecipazione dei piccoli soci alla governance. «Visto che allo stato la riforma non è applicabile allo stesso modo per tutte le banche», spiega il professore Fausto Capelli, giurista che per conto del gruppo di studio ha seguito, insieme ad altri colleghi, la causa davanti al Consiglio di Stato, «occorrerà trovare il modo per introdurre specifici correttivi che facciano salva la trasformazione in società per azioni senza perdere o addirittura annullare il rapporto con i territori». Andrebbe detto che uno dei motivi che ha spinto l’introduzione della riforma delle popolari è stato quello di contrastare gli effetti negativi provocati nella gestione di queste banche da gruppi di sindacati che nel tempo si sono creati proprio tra i piccoli azionisti. Ora la sfida è trovare il modo per conservare lo spirito della legge di riforma e allo stesso tempo costruire un modello di gestione equilibrato. Tutto questo come si traduce nella pratica?

Il gruppo di studio non si esprime, ma d’altro canto un’ipotesi di lavoro è stata già messa nero su bianco nell’atto di appello al Consiglio di Stato. Ecco che cosa viene riportato nel documento: «Si pensi, a titolo esemplificativo, al meccanismo societario del Gruppo Unipol, società per azioni quotata in Borsa che controlla diverse società per azioni operanti, tra l’altro, nel settore assicurativo e bancario. Al vertice è stata posta una società Holding finanziaria denominata Finsoe, costituita in forma di società per azioni, le cui azioni appartengono a 25 società cooperative operanti in diversi settori economici…». Si andrà, dunque, verso le Popolari modello Unipol?

Foto Ansa

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