
Articolo 18, quella tutela che abbassa i salari
Pubblichiamo l’articolo uscito su Tempi 03/2012.
Un’anomalia tutta italiana che impedisce di crescere non solo alle imprese, ma anche ai salari dei lavoratori. Per Marco Leonardi, docente di Economia del lavoro alla Statale di Milano, sarebbero innanzitutto i dipendenti a trarre vantaggio dall’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Professore, si può quantificare l’effetto dell’articolo 18 nell’economia italiana?
Osservando la distribuzione delle imprese per numero di lavoratori si nota una diminuzione delle realtà con 16 dipendenti rispetto a quelle che ne hanno 15. Bisogna dire che la differenza non è così ampia, ma le imprese con 16 dipendenti hanno intenzione di crescere ulteriormente. È quindi un passaggio intermedio: non sono a 16 per rimanerci. Altri aspetti possono incoraggiare la crescita e compensare il maggior costo del licenziamento che si genera con l’introduzione dell’articolo 18 nel superamento dei 15 dipendenti: uno di questi, per esempio, riguarda il risparmio che si ottiene con le economie di scala. Ci sono poi degli studi più raffinati che mostrano che la probabilità di passare da 15 a 16 dipendenti è minore di quella di passare da 13 a 14. Evidentemente l’articolo 18 in questi dati ha un suo rilievo.
Si può valutare il fatturato mancato delle imprese che rinunciano a crescere per non superare la soglia dei 15 dipendenti?
È difficile determinare un ammanco in termini di fatturato. Si può invece calcolare quanto costa non crescere. Dopo il 1990, quando si alzò la protezione sulle piccole imprese rispetto alle grandi, diminuirono i posti di lavoro e diminuirono i salari, perché in questi casi si innesca un principio di traslazione dei costi. In sostanza, se si alza il costo del licenziamento, l’imprenditore può trasferire parte di questo incremento sui propri dipendenti. Gli effetti ci sono e sono statisticamente significativi, soprattutto per i neo assunti.
Ha ancora senso l’articolo 18?
La preoccupazione per l’articolo 18 è diventata un’ossessione inutile. In Germania avevano un meccanismo simile al nostro e l’hanno abolito: ora è possibile licenziare a fronte di un indennizzo certo. È logico che un costo aziendale per il licenziamento ci deve essere e deve essere un indennizzo certo.
Da cosa dipende l’incertezza?
Dal fatto che il licenziato può portare l’azienda in giudizio, ma il giudice del lavoro ha a disposizione un ampio ventaglio di possibilità. Invece, il contratto di lavoro deve assumere una forma che contempla il “divorzio”. Ma nel divorzio il costo deve essere certo. Non ci si possono mettere anni per decidere l’ammontare.
Quindi l’articolo 18 è un’anomalia tutta italiana?
Che sia un’anomalia, è un dato oggettivo. Però il paese è fatto come è fatto con le sue anomalie un po’ dappertutto. Questa anomalia non esiste in nessun altro paese. È interesse dei lavoratori scambiare l’articolo 18 con un indennizzo. Naturalmente bisogna deciderne la dimensione. Se l’indennizzo fosse eccessivamente alto non si risolverebbe la situazione, licenziare resterebbe impossibile. La giusta soluzione è un indennizzo che cresca parallelamente all’anzianità di servizio del lavoratore. In questo modo in Germania si è evitata quell’ondata di licenziamenti di lavoratori anziani che oggi tutti temono in Italia.
Twitter: @giardser
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