L’arte di strappare un sorriso ad un adolescente

Di Marcella Manghi
04 Aprile 2015
Dicono che ridere – anche forzatamente – produce un cambiamento dello stato emotivo. Ho fatto un esperimento con mio figlio

smileOre 13.50. Ogni volta che lo vedo arrivare su dalle scale col fiato corto e il muso lungo mi dico: va bene che è stato cinque ore a scuola, va bene che gli pesa il vocabolario fra le mani, che ha lo zaino pieno e la pancia vuota… ma diamine, un sorriso ogni tanto non guasterebbe. Ho letto che ridere – anche forzatamente – produce un cambiamento dello stato emotivo; contrarre i muscoli del sorriso renderebbe magicamente un poco più felici. Magari bastasse così poco per farli contenti ‘sti ragazzi. Fatto sta che questa cosa della contentezza oggi mi ha stuzzicato: mi ha messo ancor più voglia di leggere un barlume di sorriso su quel suo volto chiuso e muto.

Così, mentre lui scosta la sedia per accomodarsi al suo posto a tavola, provo a strappargliene uno.
Gli sfilo sotto il naso quella torta alle nocciole per cui va pazzo: niente.
Gli dico che quel piacere chiestogli di portar la sua sorellina a danza non serve più perché è già tutto risolto: nulla.
Muscoli facciali fissi sulla pasta al forno, meglio di quei mimi davanti alla Rinascente che paiono forare con lo sguardo il marmo del duomo. È allora che mi viene l’idea; un po’ losca, lo ammetto, ma che potrebbe funzionare.

«Stamattina sono venuti quelli della Fastweb a sostituire dei cavi. Si sono scusati. Hanno tolto la wi-fi, dicono che fino a stasera non ci sarà; domattina al massimo sarà tutto a posto». E mentre a lui si sconnette l’impalcatura fissa che aveva in volto, io sgattaiolo veloce in bagno. Torno dopo un minuto, ma prendo la strada lunga, quella che passa di fianco al divano. Poi zampetto intorno al router con aria smaliziata, come quando giro dietro un manichino di Zara per capire come sarebbe se…
«Ah, guarda. L’hanno ricollegata. Adesso c’è rete. Si vede che han finito prima», cinguetto. «In effetti lo avevano ipotizzato».
Refresh.
Sul suo volto, eccolo: sano, spontaneo, non stratosferico ma reale. Un sorriso compiaciuto che va a stamparsi dritto sul suo tovagliolo di carta, ora imbrattato di sugo e euforia.
Gli spiego lo scherzo della wi-fi. Non se la prende.
Gli racconto anche della teoria del sorriso forzato, di come dovrebbe indurre contentezza. Non ci crede.

«Facciamo una prova», gli propongo.
«No».
«Dai, cosa ti costa fare un sorriso?». Forse valuta il fatto che in fondo il prezzo è così basso, o forse che la probabilità che io poi la smetta è così alta. Fatto sta che acconsente.
«Sorridi dai!». Lui tira su gli zigomi a foto di classe. È fatta. Mi sento stupida, ma lo fisso per un po’.
«Allora? Sei contento?».
«No. Come prima».
«Immaginavo. Era così, per provare…».
«E tu, sei contenta che l’ho fatto per te?».
«Sì», ammetto sincera.
«Allora vedi che qualcosa di vero c’è?», commenta. «Magari è una cosa che dà risultati su di un’altra persona. Magari non hai capito bene la teoria, quando l’hai letta…».
E qui, io attacco a parlare. Sì, perché se un adolescente ti allunga anche solo uno straccio di bandolo del discorso, tu madre lo afferri al volo, di qualunque cosa si tratti. Fosse il Gran Premio di Formula-uno del 1989, andrebbe bene comunque.

«Magari non ho letto bene? Può anche darsi, ma com’è che si dà sempre per scontato che sia io a sbagliare?». E di qui cerco di tenere acceso il lumicino del discorso; ci chiediamo cos’altro possiamo sperimentare con questa cosa dell’intelligenza corporea… Sarà vero che se chiudiamo gli occhi, allora ci addormentiamo subito? E se mi lecco i baffi prima di addentare il finocchio cotto, poi sarà anche più buono?!?
«Non ci lecchiamo i baffi perché è buono, ma è buono perché ci lecchiamo i baffi!». Ci ridiamo su.

E in un attimo mi accorgo che dopo tutto non è poi stato così difficile farlo sorridere. Insomma, potevate dirmelo subito che la parolina magica, quella per fare aprire a sesamo il sorriso, si chiamava semplicemente d-i-a-l-o-g-o.

E io, magari, lo avrei capito al volo.

@marcellamanghi

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