
Arcobaleno di sprechi
Francesco Forte, stimato economista e sottosegretario socialista che a metà degli anni Ottanta fece incetta di lazzi e insinuazioni per la gestione un po’ disinvolta e stravagante di 1900 miliardi del Fondo Aiuti Italiani (Fai) destinati al terzo mondo, comincia già ad assaporare la sua rivincita. Ancora qualche settimana e anche la Missione Arcobaleno del supercommissario Marco Vitale e del superdirettore della Protezione Civile Franco Barberi comincerà a essere bersagliata dalle frecce della critica più di San Sebastiano. La facciata, con 102 miliardi di lire raccolti in meno di due mesi e 1.500 volontari e unità di personale non militare operativi nella regione, è splendida proprio come quella di un arcobaleno, ma dietro le quinte affiora la stanchezza e volano i primi stracci.
Quei rompiscatole dei volontari I primi a protestare, come era prevedibile, sono gli esponenti delle Ong e delle associazioni di volontariato e solidarietà internazionale. D’Alema, la Turco e la Jervolino hanno fatto di tutto per imbarcarle sulla nave di Missione Arcobaleno, creando un apposito Tavolo di coordinamento per dare loro la parola, e adesso devono fare i conti con la loro verve polemica. “Stimatissimo Presidente D’Alema – scrivevano pochi giorni fa una trentina di esse – le chiediamo un incontro urgente per verificare se esistono ancora i presupposti politici per tenere in vita un Tavolo che sembra non avere più alcun senso… dal momento che il Commissario Straordinario Prof. Marco Vitale non ritiene di dover confrontarsi politicamente e tecnicamente con il suddetto Tavolo. Tutta la società civile italiana pensava che la nomina del Commissario fosse avvenuta soltanto per una garanzia di trasparenza nella gestione dei fondi (cosa che sicuramente il prof. Vitale farà), e non l’istituzione di un nuovo soggetto pubblico che determina le scelte di politica di cooperazione umanitaria. Cento miliardi sono una cifra ragguardevole, che non può non tener conto di quanto fatto precedentemente in Albania e nel Kosovo dalle associazioni e dalle istituzioni italiane. Una non corretta impostazione in questa fase rischierebbe di danneggiare irrimediabilmente quanto si è cercato faticosamente di costruire in questi anni”. Marco Vitale vanta un curriculum di tutto rispetto: dirigente di Merchant Bank, commissario straordinario al Policlinico di Milano, assessore al bilancio della Giunta Formentini, commissario straordinario del porto di Gioia Tauro. E il suo vice, Guido Artom, non gli è da meno: tutti lo ricordano come Presidente della Fiera di Milano. Eppure molti volontari li detestano cordialmente per una presunta eccessiva discrezionalità delle loro decisioni. “Vitale si è presentato al Tavolo di coordinamento per spiegare i criteri in base a cui sarebbero stati finanziati i progetti quando già aveva assegnato 15 miliardi a una decina di iniziative”, polemizza Stefano Kovac, direttore esecutivo di Ics, l’organismo che riunisce Arci, Acli, Legambiente, Federazione Chiese evangeliche,, ecc. e che assiste 4 mila profughi. Una lettera ufficiale di Giulio Marcon, presidente dell’Ics, a D’Alema, Livia Turco e Marco Vitale denuncia “improvvisazione ed estemporaneità, con finanziamenti discrezionali “a pioggia” a singoli progetti (alcuni dei quali sicuramente validi e utili) approvati con procedure approssimative, rese note 40 giorni dopo l’inizio della missione e con oltre 15 miliardi nel frattempo già impegnati”. Ha sollevato un certo malessere l’assegnazione di un contributo di 5 miliardi al Cesvi di Bergamo (il più cospicuo singolo contributo a singola associazione finora) per un programma di “Assistenza ai rifugiati kosovari nei distretti meridionali dell’Albania”. Il Cesvi è sicuramente un organismo valido, ma resta il fatto che il vicecommissario Guido Artom è uno noto collaboratore del Cesvi, che ha supportato in particolare in occasione dell’avvio dei progetti del’organizzazione in Romania, congiuntamente a Comunità Nuova di don Gino Rigoldi.
Livia la sobillatrice D’altra parte le Ong che criticano Vitale e Artom sono palesemente aizzate da Livia Turco: il suo Dipartimento per gli affari sociali (Das) si era accaparrato gli interventi umanitari in Albania, scippandoli agli Esteri, dopo la “crisi delle piramidi” del ‘97. Con la creazione di Missione Arcobaleno e la nomina di Marco Vitale a commissario straordinario è avvenuta una sorta di controscippo: il grosso dei finanziamenti a destinazione Albania, e dunque il potere decisionale sui progetti, passano ormai da quella parte. Dopo settimane di braccio di ferro, sembra profilarsi un compromesso: Vitale finanzierà automaticamente e fino ad un certo ammontare i progetti presentati dalla Turco quando questi riguardano espressamente donne, minori e disabili, cioè le materie di competenza del Das. Altre polemiche riguardano i costi dell’azione italiana a favore dei kosovari. A metà di aprile un rapporto su carta intestata di Missione Arcobaleno faceva il punto della situazione. “Complessivamente -si legge- la missione fornirà assistenza completa (alloggiativa, sanitaria e alimentare) ad oltre 25mila persone entro i prossimi dieci giorni. Il costo dell’operazione per le prime tre settimane di attività è stimato in 80-100 miliardi di lire”. Le tre settimane sono passate, gli assistiti hanno toccato quota 29mila e diventeranno 40mila. Di questo passo, se il ritmo delle donazioni non terrà dietro a quello delle spese, le casse della missione saranno presto vuote.
Costi italiani 10 volte più alti di quelli Onu Da dove nascono costi tanto alti? Per capirlo basta considerare il modo di funzionamento dei campi profughi gestiti dagli italiani. A Valona e nei due campi di Kukes, a fronte di masse di profughi di 5-6mila unità si sono trovate ad operare task force italiane di 2-300 elementi: addetti della Protezione Civile, medici, infermieri, vigili del fuoco, ecc. Significa un rapporto assistenti-assistiti oscillante fra 1 a 16 e 1 a 30. Nei campi profughi dell’Alto commissariato per i profughi delle Nazioni Unite (Unhcr), che si occupa della materia da quasi 50 anni, il numero degli addetti specializzati di nazionalità straniera per una quantità di profughi comparabile a quello dei campi italiani non supererebbe mai i 10, e più facilmente sarebbe inferiore a 5 (rapporto: fra 1 a 500 e 1 a 1.000). Il personale per la gestione ordinaria del campo verrebbe reclutato fra la gente del posto (in questo caso i cittadini albanesi) sulla base di stipendi notevolmente inferiori a quelli degli esperti stranieri, e non supererebbe le 40-50 unità. Gli italiani, invece, che si alternano in turni di 20 giorni, beneficiano di stipendi interi più indennità di trasferta; e anche i famosi “volontari” della Protezione Civile non lavorano certo gratis: viene loro applicato il decreto 613/94, quello per le emergenze dei terremoti, in base al quale l’azienda pubblica o privata di cui sono dipendenti può comandarli per un mese al servizio della Protezione Civile, e il ministero si incarica di indennizzare al 100% le amministrazioni da cui dipendono. Il risultato di tutto questo è che un profugo accudito dagli italiani costa molto di più di uno dell’Unhcr, magari per interposta Ong italiana. Durante un meeting del Tavolo di coordinamento per gli aiuti al Kosovo è stato detto che un profugo kosovaro in Albania costa all’Italia un milione di lire al mese. “I nostri costi sono ben diversi, -dice Kovac dell’Ics, che in Albania gestisce cinque campi per conto dell’Unhcr- l’Alto Commissariato ci versa 42 dollari al mese per profugo e altri 10 ce li mettiamo noi”. Fanno 52 dollari, cioè meno di 100mila lire. Cioè un decimo del costo sostenuto da Missione Arcobaleno. A ciò si aggiunga la pervicacia con cui Barberi e la Jervolino difendono le installazioni di Kukes, la località più remota di tutta l’Albania: mantenere lì due grossi campi significa, a parte i terribili rischi per la sicurezza di profughi e operatori, sobbarcarsi i costi per il trasporto dei rifornimenti (acqua compresa, che spesso manca) dalla costa con viaggi di 7-8 ore su strade impraticabili.
E ora si discute della sistemazione a medio termine dei 440mila kosovari in Albania. Secondo Unhcr, Unione Europea e Mae la soluzione ideale sarebbe recuperare le numerose strutture albanesi (capannoni industriali, caserme, scuole) in disuso, in modo che alla fine della crisi resti qualcosa di solido sul suolo albanese. Secondo ambienti di Missione Arcobaleno (si fanno i nomi di Barberi e del sottosegretario Minniti) la soluzione ideale sarebbe quella, tutta italiana, dei prefabbricati. Presso le sedi di molte Ong impegnate in Albania arrivano i depliant dei leader italiani del settore: la New House di Felegana di Medesano (Parma) e la Corimec di Piacenza. “Una soluzione per ogni problema”, recita la pubblicità. Che scarsità di fantasia.
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