Dai Fratelli (musulmani) mi guardi Allah

Di Rodolfo Casadei
11 Febbraio 2019
Gli islamisti delle primavere arabe sono la minaccia più concreta al potere dei sovrani sauditi. Ed è la guerra contro di loro il vero movente delle famose “riforme” politico-religiose del principe Mbs. Compresa la concessione della prima Messa legale nel regno
Il principe saudita Mohammad Bin Salman con il papa copto Tawadros II al Cairo

Articolo tratto dal numero di Tempi di gennaio 2019.

In Arabia Saudita risiedono un milione e mezzo di filippini, cristiani per il 90 per cento, cattolici per il 70 per cento: se il principe ereditario nonché uomo forte del regno Mohammad Bin Salman (d’ora in avanti Mbs) voleva lanciare un segnale di apertura nei confronti dei cristiani residenti nel paese e del loro conculcato diritto alla libertà di culto, dare un seguito alla visita dell’allora prefetto della Congregazione per il dialogo interreligioso cardinale Jean-Louis Tauran, che nell’aprile scorso fu ricevuto a Riyadh da re Salman, e a quella del segretario della Lega musulmana mondiale Muhammad Abdul Karim al-Issa in Vaticano nel settembre 2017, avrebbe dovuto permettere a un vescovo cattolico di celebrare Messa su suolo saudita. Magari a quel Camillo Ballin che dal 2011 è il vicario per l’Arabia Saudita, ma che non è mai stato autorizzato a mettere piede nel paese e guida il vicariato apostolico dell’Arabia settentrionale dal Kuwait. E invece no: l’onore della prima celebrazione eucaristica legale su suolo saudita è toccato ad Anba Markos, metropolita di Shubra-Kheima, un vescovo copto ortodosso egiziano, che l’1 novembre scorso ha celebrato una Messa presso l’abitazione privata di un operaio egiziano nella capitale. Eppure i cristiani egiziani presenti in Arabia Saudita sono meno di 100 mila. Addirittura si è diffusa la voce, che la Chiesa copta ha tempestivamente ma non si sa con quanta sincerità smentito, che l’accordo per la costruzione della prima chiesa cristiana su suolo saudita era stato sigillato fra papa Tawadros II e l’ambasciatore del regno in Egitto. Fino a ieri la stampa internazionale, da The Economist a La Croix, dava per certo che la costruzione della prima chiesa cristiana dei tempi moderni in Arabia Saudita era imminente, e che sarebbe stata una chiesa cattolica. 

Perché questo improvviso innamoramento dei Saud per i copti? Ma perché sono la bestia nera dei Fratelli Musulmani, l’entità politico-religiosa che più la casa reale teme. Gli islamisti egiziani vedono nella minoranza cristiana la componente sociale più leale al governo del presidente Abdel Fattah al-Sisi sostenuto dai militari, salito al potere grazie al golpe del luglio 2013: nel successivo mese di agosto i simpatizzanti del deposto presidente Mohammed Morsi, esponente dei Fratelli Musulmani, per vendicare le vittime della repressione poliziesca contro i manifestanti di piazza Raaba al-Adawiya attaccarono, saccheggiarono o distrussero 42 chiese in tutto l’Egitto. 

UN TERRIBILE “RISVEGLIO”

Se i copti sono la bestia nera dei Fratelli Musulmani, i Fratelli Musulmani sono la bestia nera della monarchia saudita, specialmente dopo le Primavere arabe del 2011, che per un breve periodo li portarono al potere in Tunisia e in Egitto. Se c’è qualcuno che potrebbe provocare la caduta dei Saud e sostituire il regime monarchico con uno repubblicano, questi non sono i terroristi di Al Qaeda o dell’Isis, che pure rappresentano una minaccia per la sicurezza del paese, e nemmeno i militanti per i diritti umani e delle donne, che pure il principe Salman ha fatto arrestare a decine fra il 2017 e il 2018: né gli uni né gli altri sono riusciti ad attivare una base sociale significativa. Il pericolo per i Saud viene da quel mondo che ruota attorno agli ulema, agli intellettuali, ai giovani e agli studenti che alla fine degli anni Sessanta diedero vita al movimento Sahwa (“Risveglio”), il quale rappresenta un’ibridazione di wahabismo, cioè l’ideologia politico-religiosa che garantisce la legittimazione al potere dei Saud, e pensiero islamista dei Fratelli Musulmani. 

Come ha spiegato lo studioso francese di origine marocchina Nabil Mouline, l’Arabia Saudita resterà wahabita: Mbs non ha nessuna intenzione di de-wahabizzare il paese, perché il clero wahabita non rappresenta in alcun modo una minaccia ai disegni di monopolio autoritario del potere del principe ereditario, che passano anche attraverso una riconfigurazione dei rapporti fra politica e religione. Di fronte alle riforme da lui volute gli ulema wahabiti fanno quello che hanno sempre fatto: adattano il discorso religioso alle esigenze del potere politico, in cambio del riconoscimento del loro monopolio sul sacro e della loro confermata cooptazione nell’establishment saudita. Il wahabismo nasce come dottrina religiosa ultraortodossa e intransigente alla fine del XVIII secolo, ma deve il suo successo al fatto che il condottiero Muhammad Bin Saud la adottò come giustificazione religiosa delle sue scorrerie contro le tribù rivali della penisola arabica: l’islam proibisce la guerra fra credenti, ma se il mio vicino musulmano è in realtà un eretico che andrà all’inferno, è mio dovere condurre un jihad contro di lui per restaurare il vero islam, ed è mio diritto impadronirmi dei suoi beni. Ma subito dopo i primi successi militari lo stesso fondatore della dottrina, Muhammad ibn Abd al-Wahhab, la annacquò per permettere alla famiglia Saud di concludere accordi di coesistenza con le tribù rivali non ancora sottomesse. 

CONDANNE CHE VANNO E VENGONO

Da allora lo schema si è sempre ripetuto: quando l’emirato saudita si è trasformato in un regno vero e proprio nel 1932 con tanto di riconoscimento internazionale, gli ulema wahabiti hanno autorizzato re Abdulaziz Bin Saud a concludere accordi internazionali con gli infedeli e a modernizzare il paese anche permettendo a stranieri non musulmani di risiedervi e lavorarci. E hanno abbandonato al loro destino gli Ikhwan, miliziani che avevano combattuto per i Saud ma poi erano entrati in contrasto con il re perché costui non applicava più rigidamente la dottrina hanbalita che è alla base del wahabismo. 

Ai tempi dell’occupazione irachena del Kuwait (1990) il gran mufti wahabita dell’Arabia Saudita decretò l’ortodossia della decisione di re Fahd di aprire le porte a truppe americane che avrebbero protetto il paese dalle minacce di Saddam Hussein. A opporsi a questa decisione per motivi insieme religiosi e politici fu il movimento Sahwa, che come detto sopra rappresentava una convergenza di wahabismo e islamismo dei Fratelli Musulmani, e che conobbe la sua massima popolarità proprio per questa posizione intransigente. Oggi succede la stessa cosa: ad approvare tacitamente o apertamente le riforme di Mbs (il permesso di guidare le auto concesso alle donne, la riapertura dei cinema, i concerti, la limitazione dei poteri della polizia religiosa che non può più effettuare arresti, eccetera) sono i chierici wahabiti, a opporsi a queste e ad altre decisioni del principe ereditario sono gli studiosi, gli intellettuali e gli ulema che rappresentano la continuazione del movimento Sahwa, e sono questi ultimi – non i loro equivalenti wahabiti – che finiscono in prigione. 

Il gran mufti d’Arabia Saudita Abdul Aziz Al ash-Sheikh, che nel 2012 rivolse un appello pubblico ai capi di governo di tutti gli stati della penisola arabica perché non permettessero la costruzione di nuove chiese (ne era stata appena inaugurata una in Kuwait), non ha più trattato l’argomento da quando ha capito che le aperture verso i cristiani rappresentano una componente strategica della politica estera di Mbs, per rinsaldare l’alleanza con l’Occidente in funzione anti-iraniana e anti-Fratelli Musulmani. Costui è la stessa persona che nel gennaio 2017 faceva fuoco e fiamme contro l’ipotesi di riaprire cinema, teatri e sale per concerti in quanto fonti di corruzione, ma prima che l’anno finisse ritrattava le sue affermazioni e dichiarava che gli studiosi islamici non hanno sufficiente evidenza per considerare la musica “haram”.

SEMPRE STATI «MODERATI»

All’indomani del discorso del 25 ottobre 2017 nel quale il principe ereditario annunciava il «ritorno all’islam moderato» («Stiamo tornando a quello che eravamo prima del 1979: un paese di islam moderato aperto a tutte le religioni, tradizioni e persone intorno al mondo. Vogliamo vivere una vita normale. Una vita nella quale la nostra religione si traduce in tolleranza. Il 70 per cento dei sauditi ha meno di 30 anni, e non vogliamo spendere i prossimi 30 anni della nostra vita in compagnia di idee distruttive. Le distruggeremo oggi una volta per tutte»), subito alcuni teologi sauditi hanno avanzato una nuova interpretazione del detto di Maometto secondo il quale non può essere praticata altra religione che l’islam nella penisola arabica. La nuova interpretazione, guarda caso, permetterebbe di tollerare anche culti non islamici… Lo stesso dicasi delle donne al volante e del loro abbigliamento (l’obbligo di vestire l’abaya, il mantello nero integrale, come unico indumento femminile consentito in pubblico ha i giorni contati): sentendo arrivare il cambiamento, già da alcuni anni ulema wahabiti affermavano non trattarsi di prescrizioni islamiche, ma di questioni sociali suscettibili di evoluzione.

Le retate ordinate da Mbs riguardano piuttosto il cosiddetto “clero indipendente”. Fra i venti ulema e studiosi di diritto islamico arrestati nel settembre 2017 spiccavano personalità molto note come Salman Oudah, Awad al-Qarni e Ali al-Omari: i primi due vantano rispettivamente 14 milioni e 2 milioni di seguaci su Twitter; il terzo è presidente della Mecca Open University e ospite fisso di show televisivi. Oltre a essere stati arrestati nello stesso giorno, i tre studiosi hanno in comune altre due cose: per tutti e tre il pubblico ministero ha chiesto la pena di morte per reati di terrorismo, ma soprattutto sono tutti e tre affiliati all’Unione internazionale degli studiosi islamici, fondata da Yussuf al-Qaradawi nel Qatar, da dove il teologo di riferimento dei Fratelli Musulmani ha potuto far sentire la sua voce in tutto il mondo attraverso gli schermi di Al Jazeera. Qatar che, come è noto, a partire dal 5-6 giugno 2017 è stato messo in quarantena da quattro paesi della regione: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto. Rotti i rapporti diplomatici e commerciali, proibito il sorvolo del loro territorio da parte di velivoli provenienti da Doha. 

È curioso notare che fra gli oppositori ad alcune delle riforme sociali di Mbs ci sia una figura molto popolare come Mohammad al-Arifi, giovane ulema ultraconservatore da 15 milioni di seguaci su Twitter che giustifica i mariti che picchiano le mogli dopo due ammonizioni, purché non le sfigurino, e i matrimoni di adulti con ragazze minorenni, il quale però appoggia la linea dura del governo col Qatar: pur essendo stato in passato un sostenitore dei Fratelli Musulmani, al-Arifi è a piede libero e si fa fotografare col principe ereditario. Invece Ali al-Omari, che ha anticipato molte aperture relativamente ai diritti delle donne, a causa dei suoi legami col Qatar si ritrova in carcere con una richiesta di pena di morte da parte del pubblico ministero.

TUTTO MA NON LA DEMOCRATIZZAZIONE

In realtà, quello che la famiglia Saud sta facendo attraverso l’apparente rivoluzione condotta da Mbs è consolidare l’assolutismo monarchico attraverso concessioni sul piano sociale. Come scrive l’analista italo-americano Giorgio Cafiero, «se ci si basa sulle riforme enumerate nel programma Vision 2030 e nei molti discorsi sulla trasformazione del regno, Mbs e suo padre non hanno mai messo nero su bianco nessuna riforma politica. In realtà, l’ambizioso programma di riforme di Mbs e di suo padre il re Salman è servito solo a consolidare ulteriormente nelle loro mani il potere, a spese del tradizionale metodo del consenso applicato al processo decisionale agli alti livelli di governo in Arabia Saudita. (…) Tutto sembra indicare che Mbs crede che una generazione inquieta di giovani sauditi vivrà felice grazie a riforme economiche e sociali nel regno che non saranno accompagnate da maggiori diritti politici».

I Fratelli Musulmani, anche nella versione saudita del Sahwa, sono il nemico numero uno della monarchia non per una diversa idea dei rapporti fra politica e religione, ma perché da sempre perseguono la democratizzazione della vita politica: l’islam politico ha bisogno, per proporsi, della libertà di parola, di stampa e di organizzazione politica, della democrazia parlamentare e delle elezioni multipartitiche. Per fermarli va bene tutto, dalle condanne a morte per terrorismo di studiosi islamisti alla costruzione di qualche sporadica chiesa copta nella penisola arabica.

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

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