Apple “serve” alla Cina tanto quanto agli Stati Uniti. E viceversa

Di Piero Vietti
15 Aprile 2025
Trump mette, toglie e minaccia nuovi dazi sui device elettronici. Ma la "macchina" degli iPhone si regge su Pechino, e un divorzio da Washington non conviene a nessuno
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Immagine realizzata con l'intelligenza artificiale di ChatGpt

«L’azienda più preziosa al mondo si trova ora intrappolata in una guerra fredda tra due superpotenze che vogliono il divorzio ma devono invece fare in modo che la loro relazione funzioni per il figlio». Con questa azzeccata immagine Patrick McGee, giornalista esperto di tecnologia e autore del libro Apple in China, in uscita a maggio, ha spiegato su The Free Press perché l’azienda che ha inventato l’iPhone è too big to fail, troppo grande per fallire, e perché «sia gli Stati Uniti che la Cina hanno bisogno di Apple per avere successo, anche se per ragioni molto diverse».

Non conviene né a Usa né a Cina che Apple perda valore

Dopo avere annunciato dazi che avrebbero avuto conseguenze disastrose sui prezzi di moltissimi dispositivi elettronici fabbricati con componenti o manodopera cinesi, Donald Trump ha deciso di ri-cambiare idea e risparmiare dai dazi reciproci l’iPhone e altri device importati dalla Cina. In attesa di capire se e quando il presidente americano cambierò di nuovo idea (ieri ha minacciato nuove tariffe sugli smartphone), nel dubbio molti americani si sono affrettati a comprare iPhone per timore di un prossimo rialzo dei prezzi.

Numerosi analisti stanno spiegando da giorni che gli Stati Uniti al momento non sono in grado di spostare sul territorio americano la produzione del prodotto di punta di Apple, e che dunque Washington ha bisogno di Pechino affinché l’azienda fondata da Steve Jobs non crolli.

Spiega McGee che per gli Stati Uniti «Apple è un simbolo di potenza tecnologica. È l’azienda più preziosa al mondo e genera grande ricchezza per i suoi azionisti (in gran parte americani). La prospettiva che perda un valore di mille miliardi di dollari, come è accaduto nel giro di poche settimane prima che Trump offrisse una pausa di 90 giorni sulla maggior parte delle azioni tariffarie la scorsa settimana (Cina esclusa), avrebbe ripercussioni praticamente su chiunque abbia dei risparmi investiti».

Gli Stati Uniti non saprebbero produrre iPhone “in casa”

Ma se Washington ha bisogno di Pechino per Apple, Pechino ha bisogno di Washington per la stessa ragione, spiega ancora il giornalista tech su TFP: «In Cina, Apple è la Grande Maestra. Per un quarto di secolo, il gigante tecnologico ha investito ingenti somme in attrezzature e ha inviato migliaia dei suoi migliori ingegneri in centinaia di fabbriche in tutto il paese, formando i lavoratori cinesi su come soddisfare standard ingegneristici quasi impossibili e poi portare la produzione a volumi enormi. Secondo le stime del ceo Tim Cook, i fornitori cinesi di Apple impiegano 3 milioni di persone. Se Apple trasferisse le sue attività in un altro Paese, la Cina subirebbe ingenti perdite di posti di lavoro. E forse, cosa ancora peggiore, perderebbe l’opportunità di apprendere le lezioni all’avanguardia che continuano a renderla il polo di riferimento mondiale per la produzione tecnologica».

Seppur legittima e comprensibile, la volontà della Casa Bianca di riportare la produzione tecnologica negli Stati Uniti è «tristemente fuori dal mondo» se pensa che si possa fare a breve. «Il problema della produzione di iPhone in America non è che costerebbero 3.500 dollari l’uno», scrive McGee, «è che non verrebbero prodotti affatto».

«Ogni iPhone è composto da 1.000 componenti. Per spedire un milione di unità al giorno, Apple necessita di centinaia di fabbriche in Cina che ne costruiscono un miliardo al giorno. È una delle catene di approvvigionamento più complesse al mondo. E questo non vale solo per l’iPhone. La complessità da incubo si moltiplica se si includono iPad, MacBook, Mac, AirPods e AirTag. Apple spedisce più prodotti in un giorno lavorativo di quanti Tesla ne spedisca in un anno intero. Inoltre, i lavoratori americani non potrebbero sopportare il lavoro massacrante richiesto dalla catena di fornitura di Apple».

Apple
Un Apple Store a Hong Kong (foto Ansa)

Aresu: «La “macchina” di Apple si regge sulla Cina»

Alessandro Aresu, autore di Geopolitica dell’intelligenza artificiale (ne abbiamo parlato qui) e di numerosi saggi sul capitalismo politico, spiega a Tempi che «Apple è una delle principali aziende al mondo per ricavi ed è tra i leader (sebbene non l’unico protagonista) del mercato degli smartphone. Il successo di Apple si deve sia all’intuizione commerciale e di prodotto di Steve Jobs che alla supply chain costruita da professionisti come Tim Cook e Jeff Williams, di cui ho parlato a lungo dei miei libri. Questa “macchina” dell’iPhone si regge sulla Cina, come luogo fondamentale dell’assemblaggio e come ecosistema di fornitori molto rilevanti, oltre che sui chip prodotti a Taiwan da TSMC, e sul sistema fiscale irlandese».

Apple è da tempo impegnata in un processo di diversificazione dalla Cina, aggiunge Aresu, «soprattutto dal 2018 a oggi, verso l’India e il Vietnam, con alterni risultati, e nel 2024 è aumentata molto la pressione politica sull’azienda per slegarsi da Pechino, che nella sua prospettiva significa perdere profitti».

Per ora, «l’iPhone non può essere prodotto così com’è e a prezzi concorrenziali negli Stati Uniti nel breve-medio termine, perché non ci sono le competenze nella forza lavoro e non c’è l’ecosistema manifatturiero: l’applicazione di dazi come quelli paventati nei giorni scorsi avvantaggerebbe in ultima analisi i concorrenti, cioè Samsung e i cinesi. Diverso è il processo, comunque non immediato, di una filiera in cui si rafforza molto la diversificazione dalla Cina attraverso l’India e il Vietnam, per l’assemblaggio e per i fornitori».

Dazi? Pechino potrebbe “colpire” Apple

Il paradosso è che se l’amministrazione Trump volesse seriamente trasferire una parte importante della produzione di iPhone in America, dovrebbe trasferire almeno il 20 per cento della forza lavoro della catena di approvvigionamento cinese, creando un programma di visti mirato per 600.000 persone: «Spostare la produzione di ogni componente che compone l’iPhone richiederebbe anni, ammesso che fosse possibile», scrive ancora McGee.

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E Pechino, che esercita ormai da anni un potere anche politico su Apple in Cina, potrebbe reagire in molti modi per danneggiare l’azienda guidata da Tim Cook: «Il governo cinese è in grado di rendere ardui gli sforzi di diversificazione di Apple. “Possono rallentare il boom in un milione di modi diversi”, ha affermato Brady MacKay, ex agente speciale statunitense e addetto all’ambasciata statunitense a Pechino, che ha visto il Partito Comunista Cinese impiegare diverse tattiche contro altre aziende per dimostrare il suo punto di vista. “Per esempio, le materie prime: possono interromperne in un batter d’occhio”».

Proprio ieri, infatti, la Cina ha sospeso l’export di alcune terre rare, metalli e magneti, minacciando il blocco delle forniture all’Occidente di componenti essenziali per l’industria bellica, elettronica, automobilistica, aerospaziale, dei semiconduttori e di una vasta gamma di beni di consumo.

La Cina vuole scalare la filiera Apple

In un commento pubblicato su Start Magazine ieri, sempre Aresu diceva che il super-prodotto di Apple «diviene sempre più vincolato non solo alla forza lavoro, ma anche e soprattutto alla filiera cinese. In questo senso, esiste uno specifico interesse cinese: scalare la filiera Apple. La documentata azione cinese è far sì che il contenuto cinese dell’iPhone divenga sempre più importante e indispensabile, mentre allo stesso tempo si sviluppano i grandi attori cinesi negli smartphone. In questo modo, le imprese cinesi avranno sempre più dal successo dell’iPhone, che è vincolato alla Cina, mentre allo stesso tempo il consumatore cinese potrà comprare più smartphone cinesi, che peraltro migliorano sempre più la loro qualità».

Anche se Apple si vanta del fatto che l’iPhone sarebbe «prodotto ovunque», la verità è che dipende dalla Cina, e questo ha reso l’azienda di Cupertino «profondamente vulnerabile», dice McGee.

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