Antonio Simone, lettera ai “carcerati” liberi e ai “liberi” carcerati

Di Antonio Simone
15 Agosto 2013
Ecco perché «ho incontrato più umanità dentro quelle mura che non fuori». Lì, nel dolore, dove viene accettata anche l'idea di aver sbagliato, si spacca il duro velo della presunzione e si è pronti a chiamare le cose con il loro nome

antonio-simone-libero09Un anno fa, ero rinchiuso a San Vittore e condividevo le pesanti situazioni di vita dentro quel carcere con altri 1.600 detenuti. Situazione al limite della sopportazione, situazione – credo – in nulla cambiata. Forse qualcuno oggi spera che con l’approvazione della nuova disciplina uscirà un po’ prima.

L’altra sera, in un ristorante di Milano, ho incontrato un amico che era anche lui in carcere quando io, in ottobre, sono uscito. Mi ha raccontato che alla sera della mia uscita aveva visto il telegiornale in cella con le riprese della mia liberazione e alla mia dichiarazione «ho incontrato più umanità dentro quelle mura che non fuori» si era abbracciato con un amico in cella e silenziosamente avevano pianto.

Oggi è un giorno speciale in cui si cerca di sensibilizzare la cosiddetta società civile rispetto al dramma delle nostre carceri. Quando racconto di ciò che ho vissuto, incontrato, conosciuto, dalle facce spesso assolutamente stupite dei miei interlocutori capisco che i più, per quanto volenterosi, non riescono ad avvicinarsi al dramma carcerario.

Ma ciò non è dovuto alla distanza che a volte si prova istintivamente all’idea del detenuto in quanto soggetto che ha compiuto un reato, più o meno grave, ma piuttosto è indice della difficoltà che ha la nostra società moderna a concepire l’idea stessa di umanità. Quando nella solitudine eterna in cui i più vivono le regole delle convivenze comuni diventano l’unica certezza che permette di difendersi dall’altro, quando non si è capaci di ricordare o di raccontare pezzi della propria storia intrisi di misericordia, perdono o speranza di una vita degna, che cosa mai si può dire o fare per un carcerato? Uno che chissà perché nella uguale infinita solitudine esistenziale ha infranto qualcosa, cosa può volere da me, lui che ha scelto una scorciatoia?

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Ecco perché invece lì è possibile che viva una grande umanità. Lì, nel dolore, dove viene dichiarata e accettata anche l’idea di aver sbagliato, quando si riesce a spaccare il duro velo della presunzione, affiora l’invincibile voglia di essere di nuovo soggetti di una rinascita, di un cambiamento, e si è pronti a chiamare per nome le cose per scoprirne il senso, per riandare alla verità di pezzi della vita passata con dentro l’evidenza di un bene sentito e vissuto. La speranza diventa tema, fonte di resistenza, ricerca di una misericordia.

Certo, faccio fatica a ricordarvi oggi. Faccio fatica davanti all’impotenza dei risultati, ma non rinuncio a quella umanità che può invadere anche la vita di chi è “libero” se, abbandonando la presunzione, come chiunque può fare, accetta di chiamare le cose con il loro nome dentro la condivisione di quella inutile ed eterna solitudine, scudo della nostra paura.

[Leggi tutte le lettere scritte da Antonio Simone a Tempi durante il periodo di detenzione]

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