
Antonio Conte doveva andarsene dalla Juve a maggio. Ecco perché non l’ha fatto
La vicenda di Conte Antonio non è solo indicativa del declino del calcio, ma anche della civiltà italiana. Ho appena finito di dire ai miei figli che, alla prima buona occasione, devono darsela a gambe. Conte e la Juve scoprono, anche prima di maggio, che non c’è più feeling, che non c’è più il sacro fuoco, che dopo tre grandi ma estenuanti scudetti bisogna staccare. Il morbo di questo calcio che pretende sempre di più infuria e il pan (cioè i danari per costruire grande squadra) manca.
Si vedono il 19 maggio, ma nessuno ha il coraggio, la forza, la decisione di mollare. E così si trascinano stancamente fino a luglio, quando la magagna viene al dunque. E alla Juve è andata ancora bene. Così almeno hanno trovato un tecnico di un certo nome ed esperienza e si può cominciare un nuovo percorso senza grandi danni (forse). Perché non si sono separati a maggio? Per paura, per quieto vivere, perché l’ignoto spaventa più di un noto fatiscente.
È il grande vizio che zavorra l’Italia. La burocrazia, le carte, il timore del rischio, l’aggrapparsi alla cadrega fissa. I migliori, dice un adagio, sono quelli che se ne vanno. Tolta l’aura da epitaffio sepolcrale e adattato alla situazione attuale, mai proverbio risulta più calzante. E io vi odio, bastardi, perché mi avete reso così. Questo è il più bel posto del mondo, ma ora, ve lo giuro compagni e amici, appena c’ho la grana trasloco a Londra.
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