Anti-global, ma soprattutto antidemocratici

Di Rodolfo Casadei
16 Agosto 2001
Esaltano la pluralità delle identità culturali, ma non quella politica: l’unico punto di vista corretto è il loro, tutto il resto è oppressione. Non vedono problemi da risolvere, ma nemici da combattere. Non sono preoccupati tanto delle sofferenze del mondo quanto di demonizzare l’Occidente. Da veri globalisti, deterritorializzano la politica. Per questo sono dei veri antidemocratici. Peggio di loro, solo i giudici che invocano la “competenza universale”. intervista ad Alain Finkielkraut a cura di Rodolfo Casadei

Alain Finkielkraut, 52enne intellettuale e giornalista francese di origini ebraiche, agregé de lettres e professore all’École Polytechnique, redattore della testata radiofonica France Culture e vincitore del Premio europeo di saggistica Charles Veillon, è uno degli intellettuali europei più originali. La sua formazione e il suo pensiero sono profondamente influenzati da autori come Hannah Arendt, Charles Peguy, François Furet, Primo Levi (è membro dell’omonima Società letteraria) ed Emmanuel Lévinas. In italiano ha pubblicato Il nuovo disordine amoroso (1979), L’ebreo immaginario (1990), Il crimine di esser nato. Una guerra in Europa 1991-1995 (1996), L’umanità perduta – Saggio sul XX secolo (1997). Ha accettato di rilasciare una lunga intervista in esclusiva a Tempi sul significato politico e culturale del movimento anti-global e sulle realtà dell’Europa di fronte ai fenomeni della globalizzazione proprio nei giorni del summit del G8 a Genova. Con un criterio di discrezionalità, a vantaggio dei lettori italiani abbiamo tradotto con “globalizazione” e “anti-global” le espressioni mondialisation e anti-mondialistes, che Finkielkraut utilizza per indicare gli argomenti in discussione.

Monsieur Finkielkraut, il movimento anti-global è il nuovo Sessantotto? Naomi Klein l’ha definito così.

Non credo che sia un nuovo Sessantotto, anzitutto perché il movimento del Sessantotto è stato un movimento internazionale, ma territorializzato: i francesi si mobilitavano in Francia, gli americani in America, ecc.; oggi abbiamo a che fare con una cosa diversa, con un movimento planetario che precisamente sposa le forme della realtà di quello che denuncia. Per meglio attaccare la globalizzazione si pratica una radicalità mondiale: questo non si era mai visto. La prima cosa che mi disturba in questo movimento antimondializzazione è precisamente che giocano il gioco della globalizzazione, deterritorializzano la politica, tendono a creare un’opposizione mondiale ad un presunto governo mondiale. Ma politicamente il mondo non è ancora mondiale; politicamente, abitiamo ancora degli Stati, dei territori circoscritti, apparteniamo a comunità particolari, e sono un po’ arrabbiato di vedere che gli antimondialisti lo dimenticano e oppongono ad un’élite transnazionale una radicalità anch’essa transnazionale.

Dunque secondo lei l’oggetto dell’ostilità di questo movimento, la globalizzazione, non esiste?

Esiste senza dubbio, ma non c’è ancora un governo mondiale e non vedo un tale evento all’orizzonte; e invece questi militanti pretendono di esercitare una democrazia post-nazionale che reagisce alle disposizioni di un governo mondiale. Ma la maggior parte dei summit non ha per obiettivo di accelerare la globalizzazione, bensì di fissarle delle regole. Senza dubbio sono regole insufficienti, ma ritengo che il movimento anti-global caricatura il suo nemico in un modo che ricorda in effetti la sinistra radicale degli anni Settanta. In questo ci può essere un rapporto fra il Sessantotto ed oggi, ed è un parallelo che non fa onore ai militanti anti-global attuali.

A proposito di democrazia: gli anti-global amano presentarsi come i difensori della democrazia, che la globalizzazione metterebbe in pericolo: lo sono veramente?

No, troppo facile. L’anti-globalizzazione esprime un pensiero unico: come si può difendere la democrazia quando si pensa una cosa sola? Non danno prova del minimo pluralismo: la “società civile” sono loro. È curioso vedere un movimento di “società civile” che difende un’ideologia unica, quando invece la democrazia dovrebbe lasciar spazio alla pluralità delle opinioni. Penso inoltre, per delle ragioni profonde, che non ci possano essere che democrazie particolari: di fronte alla mondializzazione non ci può essere una democrazia mondiale, una democrazia mondiale è una contraddizione in termini. Gli antiglobalisti sono i testimoni e i portavoce di questa contraddizione.

Eppure gli anti-global si dicono sostenitori del diritto alla differenza, difensori del pluralismo culturale. Vogliono la democrazia universale e nello stesso tempo sostengono il relativismo culturale, l’intangibilità delle identità. È una contraddizione?

No, sono solo parole in libertà. Non ci può essere democrazia se non particolare perché non c’è un solo popolo. Se diciamo che la democrazia è il governo del popolo per il popolo e da parte del popolo, bisogna prendere atto che esistono una pluralità di popoli. Oggi invece si enfatizza altro: da una parte globalizzazione economica e tecnica, dall’altra parte affermazione delle identità particolari. Io credo che l’Europa ha storicamente messo in opera un dispositivo di articolazione del particolare e dell’universale, che è la nazione. E penso che sia la globalizzazione, sia la critica della globalizzazione cospirino a smontare questo dispositivo consegnando l’universale alla ragione strumentale, cioè alla tecnica e all’economia, e riducendo la cultura alle identità culturali. Dunque constato che qui c’è un doppio abbandono: abbandono dell’universale al tecnico, abbandono della cultura alle identità. Questo è il dramma.

Scusi se insisto, ma gli antiglobal proclamano il rispetto delle culture, delle identità, delle differenze. Per questo si sentono tanto democratici e pluralisti.

Ma non è un pluralismo politico! Il pluralismo politico consiste nella pluralità delle opinioni, non nella pluralità delle identità. Perché un’identità è un mondo, ed ecco che ciascuno deve poter coltivare il suo mondo, affermare il suo mondo. La pluralità politica, invece, implica che c’è un solo mondo, e che su questo unico mondo ci possono essere dei punti di vista differenti. Questi punti di vista hanno in sé una certa legittimità, e devono potersi affrontare in condizioni normali. Il movimento anti-global non dice certo questo: per loro non c’è che un solo punto di vista giusto sul mondo, quello che essi incarnano; e d’altra parte c’è pluralità di identità. Dunque una sola ideologia e molteplicità di identità. Ma non si può abbandonare il tema della pluralità al multiculturalismo. La pluralità è anzitutto e prima di tutto quella politica, ed è questa pluralità che il movimento antimondializzazione, come la sua brutalità dimostra, non vuole assolutamente intendere. Ha un unico punto di vista da far valere, uno solo. D’altra parte come potrebbe essere legittimo un altro punto di vista, considerato che l’altro punto di vista è quello barbaro, abbietto, immorale degli oppressori?

Mi pare che lei non accetti un altro punto implicito nella posizione anti-global: la riduzione de “la cultura” a “le culture”.

Sì, perché al di là delle identità culturali, c’è una forma di cultura che si può dire cultura mondiale in quanto cultura universale, ed è questa che occorre proteggere. Perché se in effetti si assiste a questa duplice polarizzazione, da una parte mondializzazione economica e tecnica, dall’altra salvaguardia delle identità culturali, è il ruolo della cultura in quanto tale, è la sua aspirazione all’universale che si trova contestata o cancellata. Questo mi pare pericoloso.

Protestando contro il “capitalismo selvaggio”, “il pensiero unico neo-liberale”, l’“omologazione planetaria”, ecc. gli anti-global vogliono, da autentici radicali di sinistra, colpire il loro nemico di sempre, cioè l’Occidente, e il capitalismo che ne rappresenta l’“arma”. In questo modo rigettano la loro stessa eredità culturale: Pascal Bruckner parlerebbe di «odio di sé», François Furet di «bambini e uomini che odiano l’aria che respirano». Che cosa ci si può aspettare da questo atteggiamento, per il meglio e per il peggio?

Non ridurrei l’Occidente al capitalismo. Penso che una critica del capitalismo abbia il suo posto in Occidente, ma è vero che il movimento anti-global ha uno sguardo estremamente riduttivo. Per loro l’Occidente non è nient’altro che il capitalismo liberale, e anzi il capitalismo liberale americano. Il mondo non interessa ai militanti antimondializzazione, ciò che li interessa veramente è di fare il processo all’Occidente, colpevole di tutti i mali. Il loro è un militantismo a senso unico: hanno denunciato il summit di Genova, dove i russi erano invitati, senza dire una parola su quello che sta accadendo in Cecenia; le esazioni dell’esercito russo hanno preso una tale ampiezza che hanno disgustato perfino alcuni generali russi. Ma questo è caduto nell’indifferenza assoluta di coloro che fanno professione di interessarsi al mondo. È questa anche la ragione per cui José Bové si è recato per un viaggio di tre giorni in Palestina e ha manifestato a favore dei contadini palestinesi. Perché? Perché in quel conflitto ha visto la proiezione della vecchia oppressione coloniale dell’Occidente sui popoli del Terzo mondo. È una visione estremamente riduttrice, che è l’effetto di una politica al di sopra del suolo, deterritorializzata. Ormai i militanti anti-global sono, come le elites che combattono, a casa loro dappertutto. Non hanno la minima nozione della differenza fra quelli del posto e gli stranieri, e si credono dotati, come certi tribunali, purtroppo, di una competenza universale. Non c’è competenza universale, l’unica cosa che c’è di universale è la stupidità. E qui i militanti antiglobalizzazione, o almeno José Bové, hanno dato prova di una stupidità estrema.

Ma quello palestinese è solo uno dei tanti casi per i quali gli anti-global si presentano come portavoci delle vittime della mondializzazione, dicono di essere dalla parte delle vittime. È giustificata questa loro pretesa?

È legittimo essere dalla parte delle vittime quando ci sono delle vittime, ma quel che il movimento anti-global presuppone erroneamente è che la politica abbia a che fare soltanto con situazioni semplici e binarie: da una parte ci sono gli oppressori, dall’altra gli oppressi. Ciò li iscrive in una vecchia tradizione di pensiero, quella secondo cui non ci sono che due agenti, due personaggi storici possibili: l’oppressore e l’oppresso. Ma le cose non sono così semplici; e per esempio quando applicate questo schema a Israele e al rapporto fra palestinesi e israeliani, vi condannate ad accumulare i controsensi. Allo stesso modo ci sono degli oppressi autentici che utilizzano dei mezzi barbari per lottare contro l’oppressione, e bisogna denunciarlo. Ci sono delle oppressioni barbare, ma ci sono anche delle rivolte barbare. Ma di tutto ciò il movimento anti-global non vuol sentire parlare. Ciò che mi pare detestabile in questo atteggiamento è il rifiuto assoluto di prendere atto della sconfitta, della débacle del marxismo. Prendere atto della débacle del marxismo non vuole necessariamente dire passare nell’altro campo, ma porsi la questione della pertinenza della divisione del mondo in due campi dappertutto e in tutto il mondo.

Però sappiamo bene, lo ha scritto anche lei, che nel Dna della sinistra radicale c’è l’idea della vita come lotta politica permanente fra buoni e cattivi. Il messaggio-slogan secondo cui il mondo è dominato dalla globalizzazione è perfettamente funzionale a questa impostazione.

È una semplificazione che oggi nessuno può permettersi. Certo, non dobbiamo nemmeno cadere nell’irenismo: ci sono delle lotte nella politica, ci sono delle ingiustizie e bisogna essere capaci di percepirle e di combatterle. Ma quel che oggi giustamente è richiesto è soprattutto un po’ di saggezza pratica, cioè la capacità di giudicare delle situazioni in ciò che hanno di singolare. Ma non c’è singolarità per il movimento antimondializzazione. E di questo ne è prova il loro stesso comportamento: protestano contro tutti i summit, qualunque ne sia l’oggetto, e in tutte le città in cui si svolgono, con una sorta di monotonia assolutamente stupefacente. Si va a Göteborg, a Genova, a Seattle, senza neanche sapere quale sia l’agenda della mondializzazione. Si è semplicemente designato il diavolo e lo si vuole combattere in modo puramente meccanico. Non si è usciti dallo schema archeo-marxista non semplicemente della lotta di classe, ma della guerra di classe. Qui c’è una carenza di riflessione che evidentemente non è all’altezza dei problemi di oggi, e giustamente il rimprovero che si può muovere oggi al militante antiglobalizzazione è che per lui oggi non ci sono problemi, ma nemici. La scomparsa del problema nel nemico: ecco il difetto più grave dell’attuale progressismo politico; e purtroppo questo progressismo dopo qualche anno di dubbi ritrova tutta la sua forza. E si ritrova a monopolizzare, purtroppo, il discorso critico. Ciò che mi indigna non è la critica dell’Occidente e del capitalismo, ma il vederla esercitata da degli imbecilli.

Che cosa dovrebbero imparare gli anti-global dalla sconfitta del marxismo?

Dovrebbero imparare a contare un po’ più in là del numero due, dovrebbero imparare che ci possono essere più forze in presenza. Occorre riconciliarsi con la pluralità e riconciliarsi con la singolarità. La storia non è un teatro dove si riedita eternamente una sola e medesima situazione: ecco cosa dovrebbero imparare. Ora dicono semplicemente: il marxismo è un movimento generoso, il socialismo reale l’ha fatto fallire, occorre riprendere contatto con la generosità iniziale, e questo è tutto. Ma non è un’autocritica adeguata.

Come spiegare il fatto che nel movimento anti-global convivono rispetto per le identità culturali e rigetto della propria cultura di appartenenza?

Non sono sicuro che ci sia rigetto della propria cultura, ma certamente c’è rigetto di un’identità fantasmatica che sarebbe l’Occidente. E sperano che l’Occidente si rigenererà attraverso la fioritura nel suo seno di tutte le identità culturali: le identità regionali, le lingue minoritarie, ecc. È questo il punto di vista difeso dal movimento anti-global. Ma lei ha ragione per un aspetto: che in questo schema immobile l’Occidente sembra votato a giocare per sempre il ruolo del cattivo. Negli ultimi tempi comincia ad apparire qualche nuance, in verità non molto rassicurante. José Bovè ha spiegato in un articolo le ragioni del suo incondizionato sostegno non solo alla causa palestinese, ma alla politica dei palestinesi (che sono due cose diverse). E ha emesso questo paragone: che l’attitudine israeliana, la colonizzazione israeliana erano comparabili alla colonizzazione del Tibet da parte della Cina popolare. Questo paragone è completamente delirante, ma rivela una piccola mutazione interna al progressismo: c’è stato un tempo in cui la colonizzazione era solo occidentale, ecco che ora si accetta una colonizzazione all’interno del Terzo mondo, e ciò è l’effetto della delusione degli anni Settanta ed Ottanta. Ma ciò che non si accetta è di uscire dalla visione dualista oppressi-oppressori.

Un altro tema interessante è quello del rapporto fra sovranità nazionale e istituzioni sovranazionali. Il movimento antiglobalizzazione richiede una perfetta identità fra diritti umani universali e diritti di cittadinanza. Richiede la creazione di tribunali internazionali, forme di imposizione fiscale su scala mondiale come la tassa sui movimenti finanziari speculativi, il rafforzamento dei poteri delle Nazioni Unite, previa “democratizzazione”. Ma allo stesso tempo domanda il rispetto della sovranità politica degli stati. C’è coerenza in questa incoerenza?

Questa è una difficoltà che oggi riguarda tutti. Nella misura in cui i problemi, soprattutto quelli dell’ambiente, diventano sempre più globali, occorre cercare delle soluzioni transnazionali, creare istituzioni transnazionali per farsi carico di questi problemi. E quando facciamo politica siamo strattonati fra l’eredità della sovranità e la necessità di nuove forme di azione. Semplicemente direi che non bisogna considerare, come alcuni hanno tendenza a fare, la sovranità nazionale come un concetto politico superato o minaccioso. E qui bisogna fare i conti con questa nozione assolutamente rappresentativa della nostra epoca che è quella della “competenza universale”. Questa espressione è stata usata da magistrati e giudici ed è molto forte. È un grosso affare, una competenza universale. A motivo di essa, oggi in nome dell’umanità e dei problemi dell’umanità un certo numero di esseri umani si comporta come se fosse Dio in persona. Questo è pericoloso. La giusta via dovrebbe essere quella di conciliare la nostra coscienza del carattere globale dei problemi con il senso del limite umano. Ecco che cosa dovrebbe guidarci nelle modalità della nostra azione politica.

C’è mancanza di senso del limite umano nei comportamenti politici odierni?

Sicuramente presso molti magistrati e giudici. Presso i giudici questa mancanza è estremamente marcata. Oggi sembrano avere la certezza di rappresentare l’umanità.

Sono i nuovi totalitari?

No, la parola è troppo forte. Ma l’umanità non è di proprietà di nessuno, non può essere confiscata da nessuno. Prendiamo l’esempio del Tribunale internazionale per i crimini nell’ex Jugoslavia: l’arroganza attuale dei giudici di questa istituzione è per me assolutamente sbalorditiva. Qualche settimana dopo aver ottenuto la consegna di Milosevic, sono andati a fare le loro compere a Zagabria ed hanno preteso che fossero loro consegnati due generali che avevano partecipato alla liberazione della Krajna. Sono completamente indifferenti alle conseguenze dei loro atti. Per loro la verità della guerra ha solo il volto dei comportamenti criminali; mediante ciò annacquano le differenze fra gli uni e gli altri. E lungi dall’essere depositari di una competenza universale, è la loro assoluta incompetenza su ciò che non è di loro pertinenza che si dovrebbe rivelare apertamente.

E l’aspetto per cui la consegna di Milosevic e dei generali croati si è fatta, concretamente, dietro uno scambio di denaro? Non pone problemi morali?

Certo, perché si ha l’impressione che questa istituzione, il Tribunale per i crimini nella ex Jugoslavia, si esalta e si riempie la bocca di queste vittorie, senza domandarsi per chi e per che cosa ha agito in questa maniera. Giudicare i criminali di guerra in Jugoslavia dovrebbe significare aiutare i popoli di questa regione a fare il loro esame di coscienza, a staccarsi da un passato sanguinoso. Ma per fare questo si è scelta una via totalmente contradditoria con lo scopo che si voleva perseguire. Perché in Croazia non c’è alcun inizio di esame di coscienza possibile: ci sono i realisti che accettano di consegnare i generali perché, dicono, «il rapporto di forze è tale che non possiamo più opporci alle richieste del Tribunale»; e ci sono quelli che per idealismo, o per amore della verità, dicono: «Non si ha il diritto di mettere sullo stesso piano una guerra di liberazione e una guerra di annessione, anche se la guerra di liberazione ha dato luogo ad alcuni crimini», e si attengono a questa verità. Detto in altre parole: questo tribunale voleva iniettare etica nella politica, ma non vi ha iniettato che machiavellismo.

Parliamo dell’Europa: deve avere paura della globalizzazione, oppure sono altre le minacce che pesano su di essa?

Se l’Europa deve pesare di tutto il suo peso per limitare, controllare, regolare la globalizzazione economica, l’Europa deve essere un’istanza politica. E fare politica non significa semplicemente gestire i vincoli o gestire le conseguenze. Può essere anche imporre un certo numero di cose: il rifiuto di ridurre la cultura ad una merce, per esempio. Per esempio il rifiuto di abbandonare il cinema alla sola legge del mercato. Ci sono effettivamente un certo numero di missioni che incombono all’Europa. Se non le assume, ciascuno avrà il diritto di domandarsi a che serve l’Unione europa. Ma non ci sono soltanto minacce esterne che incombono sull’Europa. C’è anche un problema di indebolimento interno. Non sono affatto sicuro che siamo più europei oggi, sotto il pretesto che costruiamo un’Europa burocratica. Il sentimento europeo esiste senza dubbio, ma è molto meno ricco che nelle epoche della storia in cui la cultura giocava un ruolo centrale.

E che cosa possiamo sperare dai giovani europei in questa Europa senescente? Ci sono giovani politicamente impegnati, come quelli a Genova, e giovani non impegnati, la maggioranza. Ma tutti euforici, come fossero sotto l’effetto di stupefacenti (forse marijuana i primi ed ecstasy i secondi). Questi giovani sono una risorsa o un problema per l’Europa?

Sono i nuovi venuti sulla terra, sono coloro che hanno la capacità ontologica, per citare Hannah Arendt, di cominciare qualcosa di nuovo. Ma non possono iniziare qualcosa se noi adulti non ci assumiamo la nostra responsabilità, che è quella di integrarli in un mondo più vecchio di loro. E oggi vedere gli adulti e gli anziani prepararsi a integrare i giovani in un mondo più giovane dei giovani, cioè il mondo di Internet, del XXI secolo, è uno spettacolo allo stesso tempo ridicolo e inquietante. Questa è la realtà. La nostra è un’Europa rivolta al futuro e che attende mari e monti da queste nuove macchine per la comunicazione. Vedo un pericolo reale per l’Europa non tanto nella mondializzazione, quanto nell’ideologia della comunicazione e nelle tecniche che la impongono a discapito di tutte le altre attitudini umane fondamentali. C’è oggi una dimissione degli adulti davanti ai giovani che è la conseguenza di un’altra dimissione; quella del passato davanti all’avvenire.

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