
Andrea Muccioli
Coriano (Rimini)
Raccontano gli amici che quando Fabrizio si presentò all’altare sotto il vestito elegante portava i tatuaggi di quella sua vita precedente e randagia: un drago, un pipistrello, un’arpia e la scritta: “Meglio un cane amico che un amico cane”. Poi ha detto sì a Monica e ha impressionato un po’ tutti che un marcantonio del genere finisse per commuoversi. I ragazzi di San Patrignano hanno tutti storie di nati due volte, di vite lacere e dissipate prima, rifiorite e sofferte poi. E come per tutti i grandi romanzi d’amore anche quello di questa comunità di recupero immersa fra le viti della Romagna è cominciato per una ragazza «bellissima». Betty, uno splendore demolito dalla cocaina, «figlia di amici di famiglia» ricorda oggi Andrea Muccioli. Andrea aveva 12 anni quando suo padre Vincenzo mulinava per piazze e tuguri, avvicinando i tossici che barcollavano tra i vicoli di Rimini. Li prendeva e li portava con sé alla casa in collina, a San Patrignano. La gente del paese mormorava si fosse ammattito. Benestante, assicuratore, una passione per i cani, i cavalli e il buon vino. I vicini iniziarono ad avvelenargli i cani, a infilzare le teste dei gatti sulle inferriate del cancello. I tossici che Vincenzo andava raccattando agli angoli delle strade diventarono due, poi tre, poi dieci. Oggi, a quasi trent’anni da quell’episodio, San Patrignano accoglie 1.800 “Betty”. è la più grande comunità terapeutica d’Europa.
Roba, piazza e galera
«Perché mio padre e mia madre fecero questa scelta? Eravamo una famiglia serena, senza problemi, vivevamo nell’agiatezza. Eppure a mio padre Vincenzo e a mia madre Antonietta tutto questo non bastava. Avevano bisogno di un senso. Entrarono in contatto con questi relitti laceri, impertinenti, violenti. Videro Betty e aprirono le porte di casa. Lo fecero senza cognizione di causa, non sapendo quasi nulla di droga, non potendo nemmeno immaginare quale enorme problema umano andavano a sfidare. Lo fecero e basta». Poi però arrivarono anche i giorni dello sconforto, del ripensamento e delle ingiurie. La gente malignava: Vincenzo ha perso il senno. è in collina coi drogati. Ha abbandonato la moglie in città coi figli piccoli. Vincenzo fa messe sataniche. Vincenzo sfrutta i drogati per fare i soldi. In trent’anni non gli hanno risparmiato nessuna malevolenza,
l’hanno portato in tribunale, l’hanno additato come uno sfruttatore e un pervertito. «Mio padre e mia madre, invece, si posero solo una semplice domanda: li teniamo o li mandiamo via? Li hanno accolti, hanno buttato giù il limen familiare. Sono cresciuto in una famiglia allargata, in mezzo a ragazzi strani e bizzarri che entravano in comunità e poi scappavano, poi tornavano e di nuovo fuggivano».
La storia di San Patrignano è un’epica fatta di mille battaglie. Tante le racconta un libro (Persone permale) di Carlo Forquet, un ex eroinomane che oggi cura la comunicazione della comunità. In una si narra la vicenda di Mario che Vincenzo andò a incontrare a casa dopo che questi aveva deciso di ridurre la sua camera a un bunker: tapparelle abbassate, cucchiaino ed eroina sul comodino. Vincenzo entrò e gli parlò. Mario lo respinse. Fammi sapere se cambi idea, gli disse salutandolo. Il giorno dopo Vincenzo era di nuovo sotto casa: «Ho la macchina qui sotto, vieni?». Quello scese, entrò in comunità e cominciò a fare il vino «con una macchina che sembrava una mungitrice». Dieci anni dopo arrivarono i primi riconoscimenti, «dal ’97 i rossi di San Patrignano ottengono ogni anno risultati prestigiosi a livello internazionale». Mario come tanti altri, tutti con vicende così uguali (storie di roba, di piazza e di galera), tutti con vite così diverse. Vincenzo e Antonietta capirono che con questi giovani non si potevano avere mezze misure, mezze parole, sorrisi sbilenchi, delicate pacche sulle spalle.
«Mio padre e mia madre capirono che avrebbero dovuto dare tutto», sentenzia Andrea. Reputazione, soldi, lacrime. «Non solo sono stati capaci di salvare moltissime vite, ma soprattutto hanno dedicato tutto se stessi per gli altri. Allargare il cuore è doloroso, ma il cuore è fatto solo per ospitare un amore più grande».
Nessuno ha visto la siringa
Andrea Muccioli guida la comunità dal 1995, anno della morte del padre. Gli amici, scherzando, dicono che è ormai un “tossico ad honorem”. «Sono solo andato avanti. Avevo condiviso con i miei genitori questa scelta. Sono stato allevato dentro una casa dove ogni settimana s’accettava uno sconosciuto. Ma sono andato avanti perché vinto anch’io da una semplice e rivoluzionaria verità: i miei genitori erano capaci di un amore incondizionato. San Patrignano è questo. è la storia di questo amore senza vincoli e retropensieri. San Patrignano è capace di creare legami fraterni più forti del dato biologico». E questo è possibile perché affronta il problema della tossicodipendenza «non dal punto di vista della sostanza, ma da un punto di vista educativo». Vincenzo ha ripetuto per tutta la sua vita che «la droga non è il motivo per cui ho creato San Patrignano. Io non sono qui per di-sintossicare i drogati. Certo, li aiuto ad uscire dal loro inferno, ma lo faccio nella consapevolezza che la droga è solo l’ultimo elemento in cui è sfociato un più generale disagio di vivere». Dice oggi Andrea che «la comunità è una realtà educativa. Il vero problema oggi non è la sostanza, è l’educazione che non è mai stata tanto in crisi come ora». Ogni anno dai 7 agli 8 mila studenti visitano le colline di San Patrignano. In più, spesso, i suoi rappresentanti girano per le scuole per parlare di droga, per spiegare che cosa accade a chi s’inoltra nel tunnel. C’è anche uno spettacolo, “Fughe da fermi”, in cui a testimonianze si alternano informazioni scientifiche. «E spesso accade – spiega Forquet – che i ragazzi capiscano, rimangano impressionati, mentre gli insegnanti tendano a minimizzare, a dire loro che una canna non fa più male di un bicchiere di vino».
Attualmente il 60 per cento delle persone che vengono ospitate ha meno di venticinque anni «e quasi nessuno ha mai visto una siringa» chiosa Andrea Muccioli. “Non ci sono più i tossici di una volta”, scherzano i vecchi. Gli eroinomani squattrinati e cenciosi sono reperti d’altra epoca, parcheggiati solo nei Sert che li mandano avanti a dosi di metadone. Oggi su questa collina di Rimini arrivano ragazzini imberbi di quindici anni: ecstasy, pasticche, cocaina. «I tossici degli anni 70 e 90 erano giovani difficili e rabbiosi, ma che avevano iniziato un percorso di ricerca, cercavano un approdo ideale per soddisfare una sete di vita. Erano persone in viaggio. Oggi arrivano giovanissimi che sono come enormi contenitori vuoti. Non che oggi i ragazzi non abbiano grandi spinte ideali al loro interno, ma è solo che devi grattare sotto una coltre più spessa che non qualche anno fa». Sono figli del loro tempo: «Non sanno più distinguere tra bene e male in questa società che tutto tende a livellare e ad attutire e che manda messaggi come “il fumo uccide” facendolo scrivere sui pacchetti di sigarette, ma poi ti inculca nel cervello che “la cannabis non è una droga”». E sono figli di genitori che «abbondano coi “sì” e si dimenticano di pronunciare dei “no” motivati».
Cosa vorranno in cambio?
«L’errore più grave che è stato commesso in questi ultimi 15 anni nel mondo della tossicodipendenza è stato che le istituzioni hanno guardato alle sostanze e non alle persone. Il problema non è la droga, ma il motivo per cui ci si droga». Il libro di racconti di Forquet è pieno di testimonianze che insistono sull’impatto scioccante che San Patrignano provoca negli occhi dei nuovi arrivati. Fino al 2003 la notte di Natale era l’appuntamento principe per far entrare i nuovi che si assiepano sotto la neve davanti al cancello. Quelli che entravano, spesso, si erano fatti l’ultima dose un attimo prima, in macchina o nel cesso maleodorante di un treno. Solo un attimo prima vivevano di elemosine, furti, prostituzione. Oppure di grandi e belle automobili, di feste giuste e sniffate dietro le porte dei bar. Quando entravano trovavano un mondo che li accoglieva così come erano. Molti descrivono lo shock della mattina dopo nel ritrovarsi in un luogo dove tutto è ordine, pulizia, disciplina, verde. Per gente che ha fatto della propria giornata un caos annichilente, questa armonia genera un urto. «All’inizio c’è sempre diffidenza», racconta Andrea. «Si chiedono: ma che vorranno in cambio? Cosa c’è dietro? Come è possibile che mi offrano tutto questo gratuitamente?».
Chi entra a San Patrignano non deve sborsare un euro per tutto il periodo dell’accoglienza. In media un percorso dura tre, quattro anni. In media. Ma ci si può mettere di più o di meno a seconda della persona. «L’uomo è vulnerabile e non è fatto per stare da solo. Ha bisogno di qualcuno che lo nutra continuamente», afferma Andrea. «Noi offriamo loro questo affetto. Come capì mio padre, il problema dei drogati è un problema affettivo. Quando tu offri loro questo amore loro lo rifiutano, è normale, spesso perché non lo hanno mai avuto anche se sempre lo hanno desiderato. Poi però se vinci la diffidenza, inizia la conquista».
Non è un problema di discorsi o di parole giuste al momento giusto. «Occorre un esempio da seguire, qualcuno che sia lì con te», di giorno sulle colline a raccogliere l’uva e la notte quando devi combattere con i demoni dell’astinenza. «Per questo noi insistiamo sul rapporto personale. Chi entra viene affidato a un altro che è già in comunità da qualche anno, più avanti di lui nel percorso. Ecco, come un monito che gli sia sempre davanti agli occhi per dirgli: vedi? Sono come te. Ce la puoi fare».
E Lapierre contava i quadretti
La dimensione del lavoro si inserisce su questa intuizione. A San Patrignano lavorano tutti. E il lavoro va fatto bene, perché un buon ex drogato si giudica dai particolari. Dominique Lapierre venne a San Patrignano per presentare il suo libro La città della gioia. Racconta che Vincenzo Muccioli lo portò in sala da pranzo: «Come al solito su tutti i tavoli da ventiquattro posti c’era una tovaglia a quadretti. La sua dimensione era calcolata in modo che il profilo dei tavoli coincidesse con una fila di quadretti». Lapierre attraversò con Muccioli la sala contando «insieme quante tovaglie fossero state messe nel modo giusto. Ogni successo stava a indicare che chi aveva l’incarico di apparecchiare era emerso dalla confusione mentale dettata dalla droga e aveva recuperato la capacità di gestire razionalmente i compiti che gli erano stati affidati».
Ogni anno San Patrignano fa risparmiare allo Stato rette per oltre 25 milioni di euro perché ospita tutti gratuitamente, dal nullatenente al miliardario. Chi entra, lavora. «E a tutti quelli che malignano sul fatto che noi sfruttiamo i drogati dico: begli imprenditori saremmo, costretti come siamo, dopo aver formato una professionalità, a perderla». La verità è che lavorare è un modo per imparare il mestiere di vivere, per riacquistare fiducia nelle proprie capacità, per rimparare ad appassionarsi a qualcosa e, non da ultimo, per acquisire una competenza che servirà quando si uscirà. «Non vogliamo restituire alla società delle persone che hanno di nuovo bisogno. Vogliamo che chi esce di qui sappia offrire qualcosa al mondo, e non soltanto essere costretto a chiedere». Quando entri, fai quello di cui c’è bisogno in quel momento: puoi finire a lavorare in falegnameria o alle scuderie o alle serre. Ti può capitare di dover accudire i maiali o i cani, oppure dover imparare a battere il ferro o lavorare i tessuti. Dopo un anno, se possibile, puoi esprimere una preferenza fra le circa sessanta attività che qui si svolgono.
In trent’anni San Patrignano ha garantito a circa 20 mila giovani una nuova vita. Ha dato loro assistenza legale e sanitaria, ha assicurato a ciascuno una formazione, ha aiutato molti a terminare gli studi (anche lauree), ha creato al suo interno un minivillaggio di villette per famiglie (c’è anche un asilo, la “Chiocciola”) e un ospedale. Un’équipe dell’Università di Bologna, Pavia e Urbino ha certificato che il 72 per cento di coloro che sono passati di qui ha compiuto positivamente un percorso di recupero. «Per disintossicarsi fisicamente da qualsiasi droga – dice Forquet – non serve più di una settimana. Il problema è tutto dopo, e lo so bene anch’io che sono entrato e poi uscito per rientrare di nuovo. Come ho capito che non ero più un drogato?». Tace un attimo. «Quando non ho più avuto fretta di scappare da qui».
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