
Andavamo in Via Brera
Correva il marzo 1978, epoca di vecchie Br e sequestro Moro, si chiamava Kaccomatto ed era un giornalino formato tabloid, quattro pagine come Il Foglio di Giuliano Ferrara, stampato e distribuito nelle università milanesi. Costava 100 lire, si definiva “giornale provvisorio in via di sviluppo”, aveva sede in una casa privata di Milano e, come da dagherrotipo di Tempi, era diretto da un collettivo di stampo ciellino (Gigio Bazoli, Roberto Fontolan, Emanuele Banterle, Marcello Frediani, Luigi Amicone, Antonio Simone, Lorenzo Caprio, Luca Doninelli, Giulio Tersalvi), che si firmava “Aureliano Buendia” dal nome del protagonista di Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez. Fu questo il gruppo di universitari amici di don Giussani che bussò per primo alla porta dello studio di Giovanni Testori, in Via Brera, a due passi dall’omonima Accademia milanese. Sul finire degli anni ’70 fu proprio lui, lo scrittore, il critico d’arte, il drammaturgo ed editorialista del Corriere della Sera Giovanni Testori, che in un ambiente culturale e intellettuale ferocemente ostile ai cattolici popolari e dominato da azionisti, Pci berlingueriani, Repubblikaner scalfariani (e dai loro intolleranti figliocci extraparlamentari), divenne il grande protettore di avventure editoriali, letterarie e teatrali che vedranno poi protagonisti alcuni di quei suoi giovani amici cattolici. è Testori, infatti, che persuade l’editore Rizzoli a inaugurare una collana dedicata allo “spirito cristiano”, collana a tutt’oggi attiva e diretta da monsignor Luigi Giussani. Ed è sotto la sua tutela che Rizzoli pubblica il primo romanzo di Luca Doninelli, nonché il primo libro realmente documentario sugli anni della contestazione in Italia. è Testori che si incarica di traghettare il settimanale Il Sabato nel mare aperto della pubblicistica non confessionale ed è Testori che tiene a battesimo quella che attualmente è la più importante compagnia teatrale italiana, la Compagnia degli Incamminati di Emanuele Banterle, Franco Branciaroli, Ruth Shammah. Qui di seguito riproduciamo alcuni brani di una delle prime conversazioni con Giovanni Testori, pubblicata sotto forma di intervista, a cura di Gigio Bazoli e Roberto Fontolan, sul numero di Kaccomatto del 23 maggio 1978.
«Goffredo Parise polemizzando con lei ha definito la cultura “sete di sapere”. Condivide tale concezione?
No, non posso, non riesco a convincermi che conoscere sia sapere un maggior numero di cose. La cultura non è un privilegio. è molto di più, è un bene di tutti; la cultura è la pienezza della coscienza di esistere. L’uomo desidera conoscere la propria vita e la vive conoscendola in rapporto alla sua ragione prima, che è religiosa. Invocare il Padre nostro, ringraziare per il pane quotidiano e andare a Messa: cosa sono questi atti se non cultura?
Se il principio di questa cultura è la tensione religiosa alla vita, la ragione viene bandita?
Al contrario è la tensione religiosa, cioè la percezione del Mistero che dà alla ragione il suo giusto posto e la sua giusta pienezza; solo così la ragione è serenamente rispettata e valorizzata; solo così non diventa un idolo che, come tutti gli idoli, sprigiona una violenza cieca e innaturale.
Chi sente più vicino in queste sue convinzioni?
Voi, senz’altro voi: i giovani. In loro ho trovato una parola difficile, dura e, insieme, dolce da pronunciare, ma presente: l’amore, l’amore per la vita, per il fratello, per il compagno. L’utopia dell’ideologismo politico è crollata proprio perché i giovani capiscono che la vita è qualcosa di più vasto, che non può essere consegnata a ciò che non è se non uno strumento per l’organizzazione (spesso supposta) della convivenza civile.
Parise e con lui tutto il razionalismo credono in un intellettuale che insegni la disobbedienza. Stanno assolvendo questa funzione gli intellettuali?
Prima di tutto non credo nell’intellettuale suscitatore di disobbedienza. Mi sembra poi che la fine dell’intellettuale così inteso sia testimoniata dal fatto che egli non genera più disobbedienza come si vorrebbe, ma obbedienza: obbedienza a nuovi miti e a nuovi tabù. Ogni volta che dice “no” l’intellettuale “razionalista” dice, in effetti, un sì.
Dunque cos’è per lei l’intellettuale?
L’intellettuale è forse un maestro continuamente discepolo, un maestro che insegna e nell’atto stesso di insegnare impara. Tuttavia la cosa più giusta è che non posso essere io a definire qual è la parte dell’intellettuale e, dunque, anche la mia. Dovrei, anzi devo chiederlo io a voi: e da voi avere delle indicazioni; dalle vostre necessità, dalle vostre ragioni. E dall’integrità e pienezza con cui vivete».
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