
Andateci piano però con quegli alberi

Articolo tratto dal numero di marzo 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
L’ultima moda dell’ecologismo che si crede destinato a salvare il mondo è piantare miliardi di alberi. Al Forum economico mondiale di Davos del gennaio scorso è stata rilanciata, sotto la sigla 1t.org, la campagna approvata dall’Onu nel 2014 per la riforestazione di 350 milioni di ettari di superficie terrestre; ma con uno slogan ben più accattivante: piantare mille miliardi di alberi in tutto il mondo entro il 2030. Da Zurigo i ricercatori della Scuola politecnica federale lanciano i numeri della speranza: piantare nuovi alberi su una superficie pari a quella degli Stati Uniti (9 milioni e 800 mila chilometri quadrati, quasi 33 volte l’Italia) permetterebbe di stoccare «205 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, circa i due terzi dei 300 miliardi che sono stati liberati nell’atmosfera dall’attività umana a partire dalla Rivoluzione industriale». Su Avvenire Stefano Boeri, l’architetto del Bosco verticale di Milano, un grattacielo alberato che ha vinto premi internazionali, sentenzia: «Piantare alberi aiuta la democrazia». Persino uno scettico del clima come Donald Trump si fa fotografare mentre piantuma nel giardino della Casa Bianca insieme al presidente francese Emmanuel Macron la quercia che quest’ultimo gli ha portato in dono, e a Davos promette che l’America parteciperà entusiasticamente all’iniziativa 1t.org.
Peccato che le cose siano molto meno semplici di così, e che piantare alberi a miliardi possa non essere una buona idea dal punto di vista del clima e degli equilibri ambientali. Piantare alberi all’impazzata sulla superficie terrestre può essere dannoso per il clima, per gli ecosistemi, per le riserve d’acqua; può far aumentare la temperatura media globale anziché diminuirla, può alimentare incendi e nelle aree urbane può inquinare l’aria. Prospettive controintuitive solo per chi non ha approfondito l’argomento e si accontenta del greenwashing. Dicesi greenwashing la strategia di comunicazione di imprese e governi finalizzata a proiettare un’immagine positiva di sé nell’ambito delle politiche ambientali al fine di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli effetti negativi in termini ecologici delle proprie azioni e produzioni.
Calcoli sbagliati, natura stravolta
Diamo un’occhiata all’articolo apparso su Science del luglio dell’anno scorso, detto studio Bastin-Crowther dal cognome dei primi dei due autori principali. Le superfici che vorrebbero ricoprire di boschi ammontano a 900 milioni di ettari, da aggiungere ai 2,8 miliardi di ettari di foreste esistenti per risolvere buona parte dei nostri problemi climatici. Lo studio ripartisce per paese le aree destinate alla riforestazione: 151 milioni di ettari in Russia, 103 negli Stati Uniti, 78,4 in Canada, 58 in Australia, 49,7 in Brasile, 40,2 in Cina. Questi sei paesi da soli contano per più della metà di tutto il programma. In Europa il potenziale sarebbe di 37,7 milioni di ettari, concentrati soprattutto in Svezia, Regno Unito, Finlandia, Francia e Germania.
Nell’ottobre 2019 Science ha pubblicato un altro studio, opera di 46 ricercatori di una trentina di paesi del mondo, che smentisce completamente le asserzioni della ricerca Bastin-Crowther. «Piantare 1.000 miliardi di alberi non permetterebbe di catturare 205 miliardi di tonnellate di anidride carbonica: il reale potenziale di attenuazione del cambiamento climatico dei nuovi alberi è stato moltiplicato per cinque», sintetizza i risultati il sito dell’Inee, l’Istituto nazionale di studi ecologici che è parte del Cnr francese.
«In realtà numerosi ecosistemi sprovvisti o quasi di alberi come le savane o le torbiere contengono già molta anidride carbonica nei loro suoli, più che nella parte aerea della loro vegetazione. Inoltre le foreste di conifere delle regioni boreali e di alta montagna assorbono più luce solare ed emettono più calore che le zone prive di alberi, esacerbando il riscaldamento planetario anziché attenuarlo. Allo stesso modo, se l’impianto di alberi può essere una buona cosa in certe zone che sono state disboscate, piantare alberi in ecosistemi naturalmente erbacei come savane o praterie va a distruggere un gran numero di specie animali e vegetali. Tali azioni sono molto dannose per la biodiversità e i servizi ecosistemici forniti all’umanità».
Occhio all’energia solare
Che l’ulteriore forestazione o riforestazione delle alte latitudini sarebbe dannosa in termini di riscaldamento della temperatura media del pianeta lo aveva già spiegato quasi sei anni fa Nadine Unger, docente di chimica dell’atmosfera, sulle pagine del New York Times:
«Il colore scuro degli alberi implica che essi assorbono maggiore energia solare e aumentano la temperatura della superficie terrestre. Gli scienziati del clima hanno calcolato l’effetto di un aumento della copertura forestale sulla temperatura di superficie. La loro conclusione è che piantare alberi ai Tropici porterebbe a un raffreddamento, ma nelle regioni più fredde causerebbe un riscaldamento».
I 46 scienziati che replicano a Bastin-Crowther confermano:
«Bastin e gli altri non tengono conto dell’effetto di riscaldamento degli alberi dovuto alla diminuita albedo (che sarebbe il potere riflettente di una superficie, maggiore per i colori chiari e minore per i colori scuri, ndt). Gli alberi, soprattutto le conifere sempreverdi, riflettono meno della neve, del nudo suolo o dell’erba, e perciò assorbono più energia solare, che ultimamente viene emessa sotto forma di calore. Alle alte latitudini e in montagna, l’effetto di riscaldamento degli alberi è maggiore del loro effetto di raffreddamento attraverso il sequestro di Co2».
Per i progetti di chi vorrebbe piantare miliardi di alberi in Canada, Russia, Finlandia e Svezia è un duro colpo. Ma anche l’immissione generalizzata di foreste alle basse latitudini non è meno problematica, là dove non si tratta di rimboschimenti ma di piantare alberi dove non ci sono mai stati:
«Il modello di Bastin e degli altri che indica nelle praterie e nelle savane siti potenziali per un risanamento introducendo alberi è impreciso e fuorviato. Le savane e le praterie sono antecedenti di milioni di anni all’apparizione dell’uomo. La loro formazione è il risultato di complesse interazioni ecologiche ed evolutive fra piante erbacee, cambiamenti ambientali, incendi e grandi erbivori. Questi ecosistemi e le loro specie più emblematiche sono già gravemente minacciati dall’eliminazione totale degli incendi naturali e da processi di forestazione che sostituiscono comunità biotiche ricche di specie diverse con foreste di minore densità. L’impiantazione di alberi mirata al sequestro di Co2 esacerberà queste minacce, a svantaggio delle persone che dipendono dalle praterie per il foraggio del proprio bestiame, come habitat di selvaggina e per la rialimentazione dell’acqua di superficie e delle acque sotterranee. (…) Il risanamento ecologico di savane e praterie raramente implica l’impiantazione di alberi, e più spesso richiede il taglio di alberi e incendi circoscritti per promuovere la biodiversità e i servizi dell’ecosistema».
Effetto siccità
Là dove queste precauzioni non vengono seguite, i risultati sono negativi o addirittura disastrosi. Nell’aprile del 2016 un enorme incendio distrusse 2.400 case della città di Fort McMurray e mise in fuga quasi 100 mila persone: il più costoso disastro naturale nella storia del Canada. Il fuoco era iniziato, stranamente, nelle paludi di torba attorno all’Horse River. La commissione d’inchiesta sul disastro giunse alla conclusione che la causa originaria della calamità era una fallimentare campagna di forestazione promossa dal governo. Negli anni Ottanta erano state introdotte coltivazioni di peccio nero nelle zone paludose dell’Alberta: un albero di valore commerciale e ottimo sequestratore di Co2. Questi alberi, della famiglia del pino, risucchiarono grandi quantità di acqua sotterranea delle paludi, sviluppando grandi chiome che soffocarono la crescita del muschio di torba, il cui posto fu preso da un muschio più secco. Man mano che la terra si era prosciugata, gli alberi e il muschio si erano trasformati in un enorme serbatoio di carburante infiammabile. Superato un certo punto di non ritorno idrogeologico, un incendio disastroso arrivò in un mese di aprile particolarmente secco, e riversò nell’atmosfera le tonnellate di Co2 precedentemente catturate: le autorità dell’Alberta avevano inconsapevolmente trasformato un deposito di Co2 in una fonte di emissioni.
La Cina è il paese che più ha contribuito all’aumento di vegetazione sul pianeta fra il 2000 e oggi: da sola è responsabile del 25 per cento di tutta la nuova copertura, per metà costituita da foreste. Ma molti programmi cinesi potrebbero portare più danni che benefici. Due anni fa un’indagine condotta da quattro agronomi dell’Università di Pechino ha dedotto che le aggressive campagne di forestazione che il governo impone nell’estremo nord arido del paese si concluderanno con un fallimento. Si legge nell’abstract dell’articolo, pubblicato sulla rivista internazionale Journal of Cleaner Production:
«A partire dal 1952 la Cina ha avviato un programma di impiantazione di alberi su larga scala nelle regioni aride del paese per combattere la desertificazione. C’è un serio rischio che questo programma peggiori la penuria d’acqua e abbassi la falda freatica: gli alberi selezionati per il programma non sono stati scelti sulla base dei condizionamenti ambientali locali, e la loro evapotraspirazione eccede le precipitazioni regionali. (…) Questo studio fornisce la prime solide prove che la forestazione nella Cina settentrionale arida e semiarida peggiorerà il declino dell’acqua del sottosuolo e creerà enormi costi».
Infine ci sono problemi che riguardano gli alberi in città: le piante emettono, come ogni vivente, sostanze chimiche nell’atmosfera. In alcuni casi, combinandosi con le emissioni urbane del traffico e del riscaldamento, peggiorano l’inquinamento atmosferico. Lo ricordava già la Unger nel 2014:
«Gli alberi emettono composti organici volatili che contribuiscono all’inquinamento dell’aria e sono pericolosi per la salute umana. (…) Quando questi composti si mescolano con l’inquinamento da carburanti fossili delle auto e dell’industria, si crea un cocktail ancora più venefico di sostanze chimiche tossiche in forma di aerosol. (…) Le reazioni chimiche che coinvolgono i composti organici volatili producono metano e ozono, due potenti gas a effetto serra, e formano particolato che può influire sulla condensazione delle nubi».
Il prezzo dei boschi verticali
Quali sono gli alberi più “pericolosi” in questo senso? Secondo Nick Hewitt, dell’Università di Lancaster (Inghilterra), gli alberi che hanno «potenziale per peggiorare la qualità dell’aria» sono il salice, la quercia comune, la quercia rovere, il salicone e il pioppo. Poco utili sono il biancospino, il nocciolo, l’agrifoglio, il sorbo e il platano. Molto efficienti, al contrario, il frassino, la betulla, l’acero e il pino silvestre.
Che dire, infine, della trovata di collocare alberi sui tetti dei palazzi e dei grattacieli a fini ambientali, come ha fatto Stefano Boeri col suo Bosco verticale? I dubbi si sprecano. Si leggeva recentemente sul blog dello Studio Bellesi Giuntoli di Firenze:
«Piantare alberi sulla cima degli edifici non li rende automaticamente sostenibili. Anzi, è probabile che queste piante richiedano più cure (e dunque maggiori consumi in termini di Co2), rispetto ad alberi messi a dimora in piena terra. Il fatto che oggi sia tecnicamente possibile piantare alberi su grattacieli non la rende automaticamente una buona idea. Dal punto di vista ecologico è molto più efficiente un parco urbano che un grattacielo “alberato”. (…) Sorgono dubbi anche sulla capacità delle piante arboree, messe a dimora sulla cima di un grattacielo, di sopportare le particolari condizioni microclimatiche tipiche della cima di un alto edificio, spesso circondato da palazzi con altezza analoga. Basti pensare agli estremi termici e alla turbolenza del vento che caratterizzano un’area urbana con un’elevata densità di grattacieli. Questi fattori possono aumentare l’evapotraspirazione, cioè la quantità d’acqua (riferita all’unità di tempo) che dal terreno passa nell’aria allo stato di vapore per effetto congiunto della traspirazione, attraverso le piante, e dell’evaporazione, direttamente dal terreno. Questo fatto può comportare una rapida riduzione della disponibilità idrica nel substrato e causare uno stress idrico alla pianta. Di conseguenza, l’impianto di irrigazione dovrà fornire un maggiore quantitativo d’acqua, andando a minare la “sostenibilità” della realizzazione, perché il consumo idrico sarà elevato. È lecito supporre che una pianta erbacea o arbustiva molto rustica sia in grado di sopportare meglio questo tipo di stress rispetto a un albero».
Foto Ansa
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!