
Amore e altri rimedi, la commedia con Jake Gyllenhaal e Anne Hathaway
Chi vuol essere lieto sia, di doman non v’è certezza. Soprattutto se sei bella, bellissima ma malata e di una malattia testarda e terribile come il Parkinson. E così, tanto vale godersela ora e subito, senza troppi pensieri. Strana e controversa la commedia sentimentale firmata dal veterano Edward Zwick. Il regista di Blood Diamond e Defiance. Strana, perché parte a mille all’ora con un montaggio frenetico e con la presentazione di un personaggio brillante e sfrontato (Jake Gyllenhaal, il migliore del cast) per poi, in modo imprevisto, raccontare, con una certa discrezione, insolita per il regista de L’ultimo samurai, la malattia e tutti i problemi che questa si porta dietro. Il personaggio di Jamie, rappresentante farmaceutico, è infatti riuscito e ben connotato. E’ l’elemento migliore del film: soprattutto, è inserito in un ambiente di lavoro – fatto di convention/spettacolo, dominato dal successo, dalla carriera e dalla voglia irrefrenabile di fare soldi – che ben inquadrano un uomo che ha sempre vissuto alla giornata, usando il fascino personale per attrarre belle ragazze e scappare da qualsiasi tipo di responsabilità, anche minima. Un personaggio che, pur vivendo a distanza di anni dall’oggi (la vicenda è ambientata negli anni ’90 nonostante la soundtrack richiami il decennio precedente), incarna, per dire così, il lato oscuro di un Sogno Americano sempre valido: fare soldi, fare sesso, fare tutto contro tutti, nel nome di un egoismo e di un cinismo che lasciano davvero senza parole.
Non tutto però è a fuoco: Zwick sa che un film che combini amore & malattia & cinismo spietato può essere una pietanza indigesta e così alleggerisce la narrazione inserendo almeno un caratterista di grande simpatia (Josh Gad nei panni del fratello del protagonista) le cui gesta anche parecchio volgari però appaiono collaterali e non necessari alla vicenda. E più centrati anche se non ben approfonditi sono gli altri tre caratteristi: Oliver Platt, il supervisore di Jamie; Gabriel Macht, l’avversario rappresentante e soprattutto il medico interpretato da Hank Azaria un personaggio ambiguo e solitario, diviso tra la ricerca di nuove ragazze e la vocazione dolorosamente abbandonata di aiutare il prossimo. Tra tutti, però è Maggie (Anne Hathaway) il personaggio che pone più problemi. Perché appare poco credibile nei panni della malata di Parkinson, perché la sceneggiatura lascia in ombra troppe cose riguardanti il suo passato, il suo lavoro, il rapporto con la malattia. Perché non è credibile che la sua vita sociale sia ridotta praticamente a zero (nessun amico, nessun parente, tranne piccoli riferimenti). E perché si spoglia, fin troppo, in sequenze che di sexy hanno poco e che forse servono a coprire le incongruenze di cui sopra. Non quindi una love story classica (anche se la tentazione di pensare proprio a Love Story di Hiller è forte) e neanche la commedia ottimista e un po’ insulsa a cui Hollywood, con le poche grandi eccezioni recenti come 500 giorni insieme, ci ha abituati. Una via di mezzo, forse un film irrisolto, con un finale all’insegna dell’ottimismo e del cambiamento reale a partire da una vita condivisa, ma nel mezzo troppi passi falsi: un cinismo sin troppo calcato nella prima parte, troppi cliché nella seconda (tra le tante la sequenza sull’autobus nel finale).
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