
Addio ad Amicone, cattolico irregolare sempre in lotta ma col sorriso

Pubblichiamo, per gentile concessione, il ricordo di Luigi Amicone che Renato Farina ha scritto su Libero
Era bello avere un amico come Luigi Amicone. Era bello sapere che lui esisteva da qualche parte nel mondo, inquieto sempre, ogni volta sul piede di guerra come fosse la prima guerra mondiale della sua vita e non la millesima come minimo, ma sempre con un sorriso che irrorava pace, cazzotti e pace, anche per gli avversari con la sua faccia da eterno ragazzo, quella di un tipo che in università faceva innamorare tutte le ragazze e poi se le caricava in moto. Allo scavezzacollo mise adeguate redini Annalena, detta Mamma Oca, che gli ha dato sei figli e adesso, adesso… Adesso che è morto che si fa? Adesso lo bacia, lo saluta, deve badare a tante altre cose, adesso… E noi amici? E io?
Mi rendo conto: non si comincia così un articolo che deve dar conto della dipartita di una personalità pubblica, conosciuta sì, ma non certo di fama universale. Non tutti hanno letto qualcosa di suo, magari lo hanno sentito parlare qualche volta in televisione, di certo in minoranza, mai però foglia di fico, perché se lo strappava, era spudorato nelle sue narrazioni diversissime da quelle gradite al conduttore, qualsiasi fosse il tema. Aveva un fuoco dentro, incendiava tutto, ma un attimo dopo lo studio era come irrorato di rugiada da una sua parola dolce. Insomma.
Insomma. Luigino Amicone è morto ieri notte a Monza. Alcuni anni fa era stato invaso dal maledetto alieno, il cancro. Pareva si fosse riusciti a ricacciarlo indietro, del resto non aveva mai smesso di lavorare, né mai gli è scappato un lamento su sé stesso, poi i polmoni hanno collassato in un istante. Se n’è andato così, e dove se non in cielo?, un fuoriclasse. Proprio in senso letterale: inclassificabile, extra catalogo, extra sistole. Giornalista, scrittore, insegnante, politico, anche e soprattutto poeta nell’anima, persino nei suoi comizi ed interventi delle ultime settimane quale candidato non eletto di Forza Italia a Milano. Un numero primo misconosciuto anche nel mondo cosiddetto cattolico dove vanno forte i numeri compatibili con le tabelline del pensiero unico. Amicone non evita mai le pozzanghere, non le aggira per non disturbare la cultura mainstream con pensieri antipatici sui matrimoni omosessuali, e il nichilismo affrontato proprio anche nelle sue propaggini legislative. Spesso inopportunamente. Ma era così bello da sentire quando esplodeva nelle sue prediche assolutamente inattuali, eppure che facevano vibrare il cuore anche di chi lo avversava. Su corriere.it , alle 9 di ieri mattino, è uscito il primo ricordo, scritto con partecipazione da Andrea Senesi. Dà questa definizione: «Reazionario purissimo». Ha azzeccato a metà. Era purissimo, anche quando si sedeva nel fango.
Aveva 65 anni. Due lauree in università cattolica. Leader studentesco di Comunione e liberazione, amico totale e figlio di don Luigi Giussani che insegnava in quell’ateneo. Figlio irrequietissimo e matto, e perciò proprio il più figlio di tutti per il «Gius». E’ noto come giornalista, dalla penna che strabordava da ogni contenitore, ha lavorato (tra l’altro con Alessandro Sallusti, Maurizio Zottarelli e me) al settimanale Il Sabato. Alla sua chiusura, e dolorosissima disoccupazione, nel novembre del 1993, mi raccontò di avere avuto un colloquio per entrare al Tg5. Aveva fatto servizi strepitosi da Paesi in guerra, sempre a beccarsi proiettili o quasi, e gli spiegarono che non era possibile: era antisemita. Balle ovviamente. Scuse. In realtà era semita del filone cristiano, dove il cristianesimo non è un’idea, una morale, ma un fatto, L’ebreo Gesù Cristo che si incarna qui e ora, ed è una questione intima certo, ma che però non può starsene chiusa nei recessi del cuore, altrimenti l’intimo puzzerebbe come la sentina di una nave, cioè di merda spirituale, che benché elevata sempre merda è. (Scusate ma Amicone parlava così). Per lui era impossibile vivere questo amore per il Dio fatto uomo senza che si riversasse sugli uomini e le donne, con sguardi, atti, parole, giudizi, incazzature selvagge, e carezze inaspettate agli altri. Mai da solo. Non ci riusciva. Creava comunità, famiglie numerose.
In quei mesi di disoccupazione, alla fine del 1993, lui ed io lavorammo al mensile di Comunione e liberazione, ci pagava don Giussani, letteralmente. Trovai prima provvisorio riparo in Rai da Gad Lerner ed Enrico Deaglio (grazie!) prima di essere accolto definitivamente nella casa di Vittorio Feltri. Lui voleva creare qualcosa che avesse un’impronta da figlio-del-Gius-e-del-vento. Per questo fondò il settimanale semi-clandestino Tempi, radunando amici collaboratori, anche comunisti, atei, socialisti, purché avessero qualcosa di assolutamente necessario da dire, ma andavano bene anche qualora non avessero nulla di meglio da fare che mettersi con lui. Si circondò anche di qualche ragazzo in gamba che allevò a pane e cipolle, ma non disdegnava di stappare lo champagne, mai moralista Luigino. Mai con il timbro dell’ufficialità cattolica o ciellina (una sana eresia, nel senso di Chesterton, è il sale della vera ortodossia).
La società che lo editava all’inizio si chiamava profeticamente «Tempi duri». Chiuse. Riaprì. Poi si fermò di nuovo. E riecco infine Tempic mensile, e lui ne è ancora direttore. Ho usato il tempo presente. Era direttore. Era direttore, lo fu. Tu lo fosti, Luigino. Qui scommetto che contraddiresti questa mestizia da 5 maggio manzoniano. Diresti che l’eterno non è una chimera. La morte ci consegna a un Padre misericordioso e all’abbraccio degli amici. Il cielo non è lontano, ci avvolge.
Questo fu il tena di un incontro straordinario che il 5 gennaio del 1994 ci capitò di condividere. Norberto Bobbio ci accolse in casa sua. Ci interrogò sulla fede. Era meravigliatissimo di come noi potessimo credere a un Dio che si occupasse non in generale dei destini dell’universo, ma dei singoli. Il filosofo aveva trovato conferma a questo suo amaro scetticismo dinanzi alla fine atroce di una crocerossina brianzola di 24 anni a Mogadiscio. Maria Cristina Luinetti, disse Bobbio, era in Somalia l’unica presenza di luce, faceva solo il bene: perché Dio aveva permesso fosse uccisa proprio lei, tra tutti, proprio Cristina. Concluse: Dio per i suoi disegni non si occupa del bene di ciascuno, siamo rotelline senza importanza per Lui. Restammo zitti per un attimo Lui lesse lo sguardo, del resto lo sapeva già che non ci avrebbe convinti. Io la misi sul filosofico, ossequiosamente: «Maestro, provi a dire “forse”, forse quella ragazza ha versato la vita per un bene più grande». Amicone cercò sulla parete un crocifisso, ma non lo trovò, e allora disse: «Dio ha lasciato crocifiggere suo figlio, secondo lei Dio ha sacrificato una rotellina?». Bobbio enigmatico: «Vedremo». Adesso entrambi vedono. Qualcosa immagino, o forse intravedo attraverso la crepa della tua mancanza, Luigino. Trascrivo qui il messaggio WhatsApp che mi ha mandato pochi giorni fa, ma per un attimo ho pensato che fosse di stamattina, la prima mattina di paradiso: «La tua amicizia si propaga nell’aria e la sento scendere sulla mia persona come il caffè che sto assaporando adesso». Certe cose non finiscono.
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