“Americana”, che delusione questo folk grunge di Neil Young

Di Carlo Candiani
11 Giugno 2012

Nella sua lunghissima carriera, partita alla fine degli anni 60 come leader dei Buffalo Springfield, Neil Young ha attraversato cicli artistici diversissimi tra loro: prima la leggendaria partecipazione con Crosby, Stills e Nash, poi sorretto dai Crazy Horse quasi anticipò il movimento grunge, che celebrò definitivamente a metà degli anni Novanta con i ragazzi di Seattle, i Pearl Jam di Eddy Vedder. Ma non ha mai accettato etichette ben definite e si è impelagato anche in lavori musicali molto discutibili, sperimentando l’elettronica estrema o annegando nel country più fondamentalista. Eccolo ripresentarsi ora dopo un periodo in cui si è distinto nel recupero di produzioni perse nell’oblio della memoria storica e nel dare alle stampe vecchi live rimasti inediti: roba da collezionisti o da fan incalliti. La notizia di questa nuova uscita ha stranamente avuto un’importante eco anche sulla stampa specializzata made in Italy, che gli ha dedicato ampie recensioni creando un’attesa risultata alla fine un tantino esagerata.

Americana doveva essere nelle intenzioni di Young, che per l’occasione aveva richiamato a pieno servizio i Crazy Horse, un tributo alle radici del rock, andando a ripescare work – songs o traditionals che a cavallo (è proprio il caso di dirlo) tra l’800 e il secolo scorso si sono tramandate tra le classi più rurali della società americana, dove i nativi pellerossa e gli immigranti europei, alla disperata ricerca di una terra promessa, erano la maggioranza. Doveva essere, attraverso la riproposizione di questi brani storici, l’attualizzarsi di una protesta sulla condizione di precarietà vissuta oggi dalla middle class americana. Doveva essere l’aprire i cassetti della storia musicale (il songbook) e recuperare gioielli di inestimabile valore sociale. Purtroppo la foga di riproporre standard folk in salsa grunge ha tirato un brutto scherzo a Young e ai suoi compagni in questo viaggio a ritroso nel tempo.

[internal_video vid=34062]Americana non riesce a coinvolgere l’ascoltatore, assalito da chitarre distorte che alla fine diventano puro rumore di fondo, sempre uguali qualunque brano venga presentato: che sia Oh Susannah, già plagiato dagli Shocking Blue di Venus, oppure Tom Dula, o anche This land is your hand fino all’inno inglese God save the Queen. Insomma un’operazione inspiegabile, che toglie epicità ai brani scelti, li decontestualizza realizzando versioni che più sghembe non si può, tra cori strazianti e abborracciati, per niente accattivanti e struggenti, che non hanno senso al di fuori di alcuni circoli alternativi statunitensi. Pur ammettendo che si sia voluto evidenziare il lato “dark” e psichedelico di questi brani folk, esiste però un’estetica elementare a cui attenersi che qui non viene proprio presa in considerazione. E la voglia di stupire a tutti costi e apparire radicalmente anticonformista e corrosivo non riesce a giustificare totalmente una tale accozzaglia di suoni.

Altra cosa era l’operazione della Seeger Session, messa in pista nel 2007 da Bruce Springsteen: in questo caso, pur usando un songbook molto simile per temi e struttura musicale, “The Boss” aveva completamente reinventato con passione e grande ritmo non ripiegandosi sul proprio ombelico bensì, attraverso l’accompagnamento di una grande band, aveva reso la proposta universale e “capibile” a tutte le latitudini. Nel rispetto della storia di ogni artista.

@carlocandio

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1 commento

  1. 007

    e io che pensavo che i ragazzi di Seattle fossero i Nirvana……………………………….
    Scherzi a parte: sarà che il nuovo album di Neil Young si chiama proprio come uno degli album più famosi (e al contempo odiati dai veri fan) del mitico gruppo di nome “The Offspring”?
    un caro saluto e complimenti per la rapidità di recensione!
    p.s. e comunque Neil Young a breve raggiungerà quota 70 anni: qualcosa doveva pur cambiare!

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