
All’Onu le storie dei bimbi “incompatibili con la vita”

L’11 marzo scorso alcune famiglie hanno parlato alle Nazioni Unite per ricordare «il valore indescrivibile» dei loro figli bollati dalla terminologia clinica con il termine “incompatibili con la vita”. La conferenza è servita a lanciare una dichiarazione sulla cura perinatale già sottoscritta da 320 medici e da diversi gruppi che si occupano di disabilità.
LA MORTE NON CAMBIA NULLA. Grace Sharp, irlandese, mamma della piccola Lilly Joy, ha spiegato: «Le parole hanno il potere di curare e di dare speranza alla vita di una persona, ma hanno anche il potere di distruggere tutte le speranze: questo significò per me la frase “incompatibile con la vita”». Ma la donna decise di proseguire la gravidanza comunque e così «Lilly morì fra le mie braccia circondata dal mio amore. I suoi ultimi attimi qui li ha passati con sua madre e suo padre che le dicevano quanto la amavano». E anche se per i medici non era vita, «quella è mia figlia e la morte non può cambiare questo fatto».
Sarah Nugent, irlandese, madre di Isabella, ricorda invece la piccola che è sopravvissuta 54 giorni dopo il parto: «Ogni singolo secondo passato con Isabella è stato speciale, ogni persona che ha potuto incontrarla e amarla ora la piange con me. Non posso descrivere l’impatto che ha avuto (…), tutto il mio cuore scoppiava d’amore per lei». Che cosa ha significato per lei il pronostico “incompatibile con la vita”? «Nessun aiuto, nessuna speranza, nessun intervento medico».
ANCORA VIVI. Macarena Mata e Francisco Lanca, una coppia di sposi spagnoli hanno parlato di Nicolas e Fatima. Il primo, secondo di cinque figli, dichiarato incompatibile con la vita, oggi ha 9 anni: «Ci dissero che il bambino poteva nascere vivo e poi morire. Eravamo spaventatissimi, potete quindi immaginare la nostra felicità quando sentimmo il pianto del nostro figlio neonato Nicolas. Fu tale che quando il medico ci comunicò che era affetto dalla sindrome di Down rispondemmo immediatamente: “Grazie a Dio!”». Il piccolo subì poi un’operazione importante al cuore. Per questo quando a Fatima, la quartogenita, fu diagnosticata la stessa malattia, «non ci spaventava tanto la sindrome di Down, ma un’altra operazione al cuore». L’intervento chirurgico andò bene «e siamo così contenti che oggi abbiamo un’altra bambina. Ha un mese e sta bene (…) e la nostra vita è piena di divertimento, tenerezza e amore». Per questo «l’idea che i nostri figli fossero considerati “incompatibili con la vita” è semplicemente ridicola».
UN PEZZO DI CIELO. Monika Jaquier, svizzera e mamma di Anouk, affetta dalla trisomia 18: «Ti fanno sentire come se tuo figlio fosse un mostro o come se non fosse veramente un essere umano», ma «si sbagliavano. Tornò a casa con noi e visse con la sua famiglia per 33 giorni», senza «portare altro che amore e gioia. Ha portato un pezzo di paradiso in casa nostra». Anche per Derbhille Mcgill, proveniente dall’Irlanda del Nord, la figlia Clodagh fu «un pezzo di cielo fra noi», nonostante il pronostico nefasto pronunciato dal medico «mentre respirava fra le mie braccia». La piccola fu portata a casa perché «era “incompatibile con la vita” (…) ci lasciarono da soli, abbiamo dovuto provvedere a tutto noi, anche all’ossigeno».
Barbara Farlow, mamma di Annie nata con la trisomia 13, che però non morì a causa della malattia, ha ricordato: «Chiesi alla caposala se qualcuno avesse dato a mia figlia qualcosa di letale per farla morire: “La prego mi dica che non è successo”, ma lei abbassò gli occhi e rimase in silenzio».
EPPURE SI MUOVEVA. Sarah Hynes, irlandese, madre di Séan, a cui fu diagnosticata la trisomia 18 ha raccontato: «Per il medico non era una bambino. Era una cosa “incompatibile con la vita”. Avevo sentito i battiti cardiaci ad ogni appuntamento, avevo sentito i suoi movimenti per settimane, avevo visto la mia pancia crescere di settimana in settimana. Come poteva questo medico dirmi che era “incompatibile con la vita”?». Quando il piccolo nacque era ancora vivo, ma «quando chiesi assistenza per dargli da mangiare mi dissero di provare da me “e se non prende il latte non fa niente”. Mi sentii completamente persa (…) volevo solo che i diritti umani primari di mio figlio fossero rispettati. Penso che loro e noi come genitori meritiamo di più». Ragion per cui «oggi lanciamo la “Dichiarazione di Ginevra sulla cura perinatale” intraprendendo una campagna globale affinché la frase “incompatibile con la vita” non sia più considerata una diagnosi medica».
NON È UNA DIAGNOSI. Tracy Harkin, mamma di Kathleen Rose, affetta dalla trisomia 13 e che oggi ha 8 anni, ha letto la dichiarazione: «Come medici e ricercatori dichiariamo che il termine “incompatibile con la vita” non è una diagnosi medica e non deve essere usato per descrivere i bambini non ancora nati, che possono avere una condizione di vita limitante. Riconosciamo che non esiste nessuna necessità medica di interrompere queste gravidanze in una madre che gode di buona salute. Sosteniamo pienamente lo sviluppo di servizi e di hospice perinatali per le famiglie a cui è stato comunicato che il loro figlio non ancora nato potrebbe non vivere a lungo nel grembo materno o dopo la nascita».
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