
«Alloggi, medicine, cibo e acqua. Così aiutiamo il Myanmar colpito dal sisma»

Da quasi un decennio Guido Calvi fa la spola fra Myanmar (l’antica Birmania) e l’Italia, responsabile dei programmi sponsorizzati da Avsi nel paese asiatico colpito dal catastrofico terremoto del 28 marzo scorso. Tali programmi sono cominciati nel 2007 e sono incentrati su 600 affidi a distanza, formazione professionale e sviluppo agricolo. Le aree del paese interessate dagli interventi sono lo stato di Shan, adiacente alla regione di Mandalay che è stata la più colpita dal sisma del 28 marzo, e gli stati di Kachin e Kaya. Dopo il golpe militare del 2021 la cooperazione ordinaria è stata in buona parte sostituita da interventi di emergenza per gli sfollati interni, prodotto dello scontro fra le forze governative e numerose formazioni armate ribelli. Le estese distruzioni causate dal terremoto inaugurano una nuova stagione di interventi, centrati sull’emergenza e sulla ricostruzione. Mentre la valutazione della situazione resta difficile, a tre giorni dalla sciagura. Per far fronte all’emergenza, la Ong italiana ha attivato una raccolta fondi (clicca qui per donare).
Che notizie vi arrivano da Myanmar attraverso i vostri contatti sul posto? Riuscite ad avere un quadro della situazione più reale di quello che le fonti ufficiali non sembrano essere riuscite ancora a mettere a fuoco?
È difficile avere il quadro della situazione perché i sistemi di comunicazione sono molto limitati, nessuna applicazione di messaggistica funziona correttamente, anche perché il terremoto ha avuto conseguenze sulla rete elettrica di quasi tutto il paese, incluse le zone non interessate dall’evento sismico. A Yangoon, la prima città del paese, non si riescono ad avere più di due ore di elettricità al giorno. Un problema analogo si verifica per l’approvvigionamento idrico: a Yangoon come in gran parte del paese, anche nelle zone non interessate dal terremoto, la fornitura di acqua è diventata precaria. Tutto questo ci dice che, anche se non abbiamo ancora dati precisi, l’impatto del terremoto è stato devastante. Dallo stato di Shan, dove abbiamo il maggior numero di referenti locali, ci informano che il 70 per cento degli edifici è stato danneggiato o distrutto.
Il terremoto ha colpito zone fortemente interessate dalla lotta armata di bassa-media intensità che una miriade di formazioni ribelli sta conducendo contro il regime militare dal 2021. Risulta che il governo di unità nazionale in esilio, che rappresenta tutta l’opposizione al regime, abbia proclamato una tregua dei combattimenti per favorire l’accesso degli aiuti alle popolazioni sinistrate, mentre non è chiara la posizione del governo.
Anche le autorità hanno espresso la volontà di sospendere per due settimane le operazioni militari, ma di fatto questo non è avvenuto: è notizia di ieri [l’altro ieri per chi legge, ndr] che abbiano avuto luogo diversi bombardamenti governativi nello stato di Kaya, dove siamo presenti. In Kaya, Kachin e Shan operano milizie etniche antigovernative piuttosto attive.
E lì voi vi occupavate, prima del terremoto, dei profughi interni?
Sì. Dopo il golpe del febbraio 2021 i disordini hanno causato la fuga dai propri luoghi di residenza di 3 milioni e mezzo di persone su una popolazione di 54 milioni a livello nazionale. In collaborazione con la società civile locale abbiamo promosso attività a vantaggio di sfollati e residenti del posto: accesso all’acqua e al cibo, attività educative e scolastiche per un totale di 30 mila persone. Questi interventi sono stati finanziati in parte con le risorse degli affidi a distanza (perché molti dei bambini per i quali sono attivi gli affidi si sono ritrovati fra gli sfollati o in strutture dove sono affluiti sfollati, come gli ostelli per gli studenti in città) e in parte con quelle dell’Ocha [l’organizzazione Onu che coordina gli aiuti umanitari, ndr] e dell’Unicef.
La lotta armata contro i militari appare più debole nelle regioni a prevalenza bamar, l’etnia maggioritaria e di religione buddhista che in passato dava il nome al paese, e più intensa nelle regioni dove le altre etnie costituiscono la maggioranza, a volte assoluta, della popolazione. Perché?
Fuori dagli stati e regioni abitati dalle minoranze etniche la lotta armata è iniziata solo dopo il golpe del 2021, e trattandosi di zone lontane dai confini con Bangladesh, India, Cina, Laos e Thailandia per loro è più difficile procurarsi armi. Invece le minoranze etniche hanno una lunga tradizione di resistenza armata e di controllo del loro territorio, compresi i confini coi paesi vicini. Per loro è molto più facile ricevere forniture militari. I gruppi etnici hanno creato uno stato nello stato, spesso inaccessibile alle forze governative, in molte aree del paese.

Come pensate di intervenire ora, per il bisogno che si è creato, quali sono le possibilità concrete di intervento?
Le possibilità concrete stanno in quello che già facevamo prima del terremoto: disponiamo di uno staff sperimentato sul posto (interamente locale, non c’è nessun espatriato di Avsi nel Myanmar) e sono molte le associazioni locali con cui da anni collaboriamo. La prima cosa di cui abbiamo cercato di accertarci quando è arrivata la notizia della sciagura è stata se c’erano state vittime fra i nostri collaboratori: ci hanno detto che stanno tutti bene. Ora stiamo cercando di capire se si può dire la stessa cosa per i bambini dell’affido a distanza e le loro famiglie, e la verifica non è facile: Myanmar è un paese dove le comunicazioni sono estremamente difficoltose per la presenza di numerosi posti di blocco della polizia e dell’esercito, per l’esistenza di aree inaccessibili a causa della guerriglia e per le interruzioni dei sistemi di comunicazione di telefonia cellulare e di internet. Dopodiché abbiamo chiare le priorità di intervento: anzitutto si tratta di riabilitare le abitazioni danneggiate dal sisma e di fornire alloggi permanenti a chi li ha persi del tutto. I mercati degli strumenti e dei beni per l’attività edilizia esistono e funzionano tuttora: si tratta di finanziare gli acquisti e i relativi servizi. Per la prima emergenza prevediamo anche di sostenere l’acquisto di cibo, medicine e altri generi di prima necessità. Nelle zone dove è più facile per noi essere presenti daremo risorse economiche alle famiglie perché si procurino ciò che è di maggior aiuto per loro. Nelle zone controllate dal governo militare propendiamo per la distribuzione fisica di beni alle famiglie sinistrate. Il terzo punto del programma riguarda l’acqua: interverremo per garantire l’accesso ad acqua non contaminata nel modo più efficiente possibile.
Avsi è presente nel Myanmar dal 2007. Qual è il bilancio di una presenza lunga diciotto anni, e che cosa ne rimane dopo questo terremoto?
Il bilancio è quello di una presenza che ha costruito tanto in collaborazione con le autorità locali e i gruppi etnici per promuovere lo sviluppo, ma che a un certo punto si è trovata a dover ripartire un po’ da zero a causa dell’emergenza innescata dal golpe e dalle reazioni allo stesso. Nel 2021 a gennaio il paese stava per uscire dalla lista dei paesi meno sviluppati del mondo, aveva indici di crescita impressionanti, le tipologie di intervento erano legate allo sviluppo agricolo. Oggi tutto è cambiato: siamo tornati ai servizi di base per la popolazione, e la cosa è triste. Ma quello che avevamo costruito non è andato perso perché le persone sono ancora lì, il personale locale è cresciuto con noi, resta presente e lavora nelle condizioni proibitive che sappiamo.
Le Ong e le agenzie governative riuscivano e riescono a operare nel Myanmar?
Siamo fra le Ong che hanno potuto lavorare sui due fronti, cioè negli stati etnici e nelle zone sotto controllo governativo. Negli ultimi anni le difficoltà sono cresciute, soprattutto in materia di permessi. La pressione esercitata da Ong, governi ed enti multilaterali ha ottenuto che si potesse continuare a lavorare, a garantire servizi alla popolazione. Adesso bisognerà vedere se la giunta militare vorrà sfruttare l’opportunità del terremoto per attirare risorse nel paese, o se invece avrà timore che venga maggiormente pubblicizzato il conflitto in corso e che ci siano “ingerenze” di paesi stranieri nella crisi, e quindi eserciterà uno stretto controllo.
Myanmar è un paese in grande maggioranza buddhista con alcune minoranze religiose, fra cui quella cristiana divisa in varie denominazioni. Voi collaborate con la Chiesa cattolica?
Assolutamente. I primi progetti sono partiti in aree dove c’era una comunità cristiana. In tutte le zone in cui lavoriamo fra i nostri partner locali ci sono le Caritas diocesane, così come le associazioni con cui portiamo avanti gli affidamenti a distanza sono legate al mondo cattolico. Il vescovo di Taunggyi, la capitale dello stato di Shan, monsignor John Saw Gawdy, è un amico, cerco sempre di incontrarlo ogni volta che scendo nel paese. Abbiamo anche collaboratori buddhisti, e buddhiste sono alcune delle associazioni a cui ci appoggiamo.
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