
All’Ilva di Taranto lo Stato ha già fallito. Speriamo non voglia ripetersi
All’Ilva di Taranto si decidono le sorti dell’industria italiana. Non solo perché ad essere in sospeso in queste ore sono i destini delle migliaia di lavoratori dell’azienda, fiore all’occhiello del Gruppo Riva, e dell’indotto dell’acciaio nel nostro paese. Ma anche perché in quello stabilimento, il più grande d’Europa, vengono al pettine una volta per tutte i nodi del modello su cui fino ad ora sono coesistiti lo sviluppo della produzione industriale nell’area con le norme a tutela della salute, dentro e fuori lo stabilimento, e dell’ambiente. «Il territorio italiano, infatti, e il tarantino in particolare – spiega a tempi.it Antonio Calabrese, docente di ingegneria delle tecnologie industriali a indirizzo economico-organizzativo al Politecnico di Milano –, sono da sempre territori mediamente ad alta densità abitativa, che difficilmente si prestano ad ospitare grandi poli industriali». Detto questo, però, rinunciare al «controllo» e alla «gestione» dell’area e della produzione nell’Ilva – sotto la pressione delle decisioni della magistratura – non equivarrebbe affatto a risolvere i problemi «spinosi» e «complessi» che finora sono emersi. Problemi cui lo Stato, a suo tempo, non aveva già saputo dare risposta.
Professore, da quando i giudici hanno sequestrato l’Ilva a che punto siamo con le procedure di spegnimento degli altiforni?
A quanto mi risulta le procedure di spegnimento dell’area a caldo non sono ancora iniziate: siamo solo in una prima fase di predisposizione allo spegnimento. Ed è per questo che è stata incaricata una società terza di studiare come fare. D’altronde in questo momento la situazione è ancora molto confusa e l’Ilva ha tutto l’interesse a ritardare il più possibile l’avvio delle procedure. Anche perché quando si inizia con lo spegnimento poi non si può più tornare indietro.
La produzione però è stata arrestata. Senza produrre l’Ilva non inquina più?
L’azienda si trova in una particolare condizione di stand by. Il personale controlla solo che non si verifichino problemi negli impianti, di fatto, fermi. Certamente le emissioni convogliate nei camini sono ridotte rispetto a quando gli impianti funzionano a regime. Ma il problema principale non è legato tanto alle emissioni convogliate, quanto piuttosto ai parchi minerari.
In che senso?
Nel senso che una delle principali fonti di inquinamento sono proprio i minerali normalmente impiegati nel processo di produzione dell’acciaio e che sono depositati nei parchi. È a questi che si deve attribuire il rilascio delle polveri che hanno inquinato il tarantino negli anni. Ma se i minerali restano lì dove sono non è che la situazione cambia da sé.
Cosa si può fare dunque?
So che si è parlato di costruire muri perimetrali ma sarebbe un palliativo. Una soluzione invece può essere quella di edificare dei “dome” in cui contenere i minerali. E per quanto ne so io l’Ilva ha richiesto uno studio di fattibilità a riguardo.
A prescindere dalla vicenda giudiziaria in corso, lei che scenari vede per il futuro?
Nel primo scenario, se si decide che l’Ilva può continuare a produrre, occorre fare qualcosa per ridurre ulteriormente tutti i tipi di emissioni. E questo è un problema che riguarda l’oggi e il futuro. Ma affinché l’Ilva possa fare gli investimenti necessari, che costano almeno 3 miliardi di euro, serve che possa continuare a produrre già oggi. Altrimenti come si finanziano gli interventi?
Già, il governo deve dare una risposta su questo punto. A meno che voglia spendere soldi di tasca propria.
In questi giorni si è tornati a parlare di un eventuale passaggio di proprietà dell’Ilva a terzi, alcuni hanno detto anche allo Stato. Ma non dimentichiamoci che l’Ilva è già stata di proprietà pubblica e la situazione dell’industria allora era di gran lunga peggiore di quella che c’è oggi. Oggi è molto meglio di com’era prima.
E il secondo scenario?
Il secondo scenario prevede che l’Ilva venga chiusa. Che sarebbe una perdita pari al 6/7 per cento del pil regionale e quasi a un punto percentuale di pil per l’Italia.
Siamo ormai in un vicolo cieco?
Non saprei, certo è che il tema di fondo è quello della coesistenza tra la produzione industriale che nella regione dà da lavorare a moltissime persone e la tutela dell’ambiente e della salute di chi nella zona ci vive e lavora. L’Italia, che è il secondo paese manifatturiero dopo la Germania, deve semplicemente decidere se vuole mantenere questa sua peculiare vocazione oppure no.
Cosa deve fare per mantenerla?
Sviluppare un nuovo sistema di gestione e controllo della produzione: la gestione, che deve essere in capo alla proprietà dell’azienda e il più trasparente possibile; e il controllo, che invece spetta al settore pubblico con l’ausilio di enti terzi.
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!