
Alla fiera del grande fratello
I signori Goodman sono una famiglia di perfetti consumatori da statistica. Nella soffitta della loro villetta a due piani nella campagna newyorchese, accanto ai bauli lasciati dai nonni, con i merletti e i dagherrotipi di fine secolo, il signor Goodman, un ragioniere cinquantenne, ha una collezione di vecchie bottiglie della Coca Cola, lattine Campbell, manifesti dell’America del dopoguerra, portaceneri della Marlboro: un museo privato del kitsch americano, dei marchi che hanno reso famoso questo grande Paese dove comprare – e consumare – è quasi un comandamento. Il signor Goodman colleziona queste americanate da trent’anni, e le venera come se fossero una carrellata sul nostro secolo e sul successo dell’American dream. Le sue bottigliette della Coca Cola sono le stesse disegnate nel 1916 da Raymond Loewy: un capolavoro del primo design moderno. La collezione di frisbee risale agli anni Cinquanta, quando ancora si chiamavano Pluto Platter e avevano introdotto lo zen nel mondo sportivo: nessuno vince, non c’è punteggio e non esistono regole (un motto talmente di successo che il Pentagono, nel ‘91 della guerra del Golfo, ne ha inviati 20mila alle truppe in Kuwait, per rafforzare il loro morale).
I colossi del mercato virtuale Al piano di sotto, invece, il figlio del signor Goodman trascorre le sue serate al computer, facendo gli acquisti e dimostrando che il mercato telematico, appena nato, è già un gigante in veloce espansione che rischia di distruggere i grandi nomi americani, facendoli letteralmente finire in soffitta. La rivoluzione di Internet, infatti, attraversa anche il business, come una cavalcata selvaggia, rendendo grandi marchi sconosciuti, creando nuovi giganti dell’industria. E-commerce, lo chiamano gli americani: miliardi di dollari che tra poco circoleranno nel mondo della cybernetica, vendendo di tutto e rendendoci consumatori che comprano premendo un pulsante del nostro terminale, immediatamente schedati, controllati e ovviamente spiati. È la nuova, grande ondata immigratoria del Duemila: non più immigranti che arrivano in America con la valigia di cartone, ma miliardi che cambiano mano, valuta e Paese al leggero premere di un tasto di Internet. La globalizzazione del mercato, raggiunta cent’anni fa, quando gli emigranti cambiavano Paese senza passaporto, quando 60 milioni di europei cercarono fortuna negli Usa o in Australia, quando il 14 per cento degli americani era nato altrove (contro l’8% di adesso), continua in Internet. Uno dei divertimenti preferiti del giovane Goodman è quello di trascorrere ore intere, on line, a guardare la E Bay, nuovo grande fenomeno americano: il più grande mercato delle pulci del mondo, una casa d’aste su Internet dove si può comprare di tutto. Basta inserirsi e scegliere dall’infinito menù: la E Bay mette in vendita qualsiasi cosa, dai giocattoli, all’antiquariato, alle case, alle auto d’epoca, le barche a vela, i vestiti, i computer, i mobili da ufficio e qualsiasi cosa qualcuno decida di offrire: un mondo dell’usato a portata di mano. Per fare acquisti basta fare un’offerta, sperando che sia la più alta. Ma la E Bay sta diventando anche un oggetto cult: l’ufficio postale americano ha appena dichiarato che su ogni dieci pacchi – spediti da privato a privato – almeno uno viene dagli acquisti sull’E Bay. E da settembre ad oggi il valore di questa pagina elettronica è salito da 735 milioni di dollari a 22 miliardi: alla guida c’è una giovane donna, Meg Whitman, che è già diventata miliardaria e regina del marketing cybernetico che sta schiacciando molti simboli americani.
Goodbye Levi’s La crisi del mercato industriale, soprattutto dell’abbigliamento, dell’industria alimentare e di tutto quello che fa moda, causata anche in parte della crisi finanziaria di un mondo asiatico sul quale le esportazioni statunitensi pensavano di poter contare, infatti, mette invece a rischio molti di quei leggendari marchi americani che il vecchio Goodman colleziona con tanta passione: oggi naviga in cattive acque la Levi’s, per anni simbolo dei jeans, la Ponds (equivalente americano della Nivea per le creme di massa) e i grandi magazzini Caldor giacciono come giganti vuoti – e falliti – in tutte le cittadine americane, come le vecchie miniere d’oro del West: simbolo di un consumismo di piccolo cabotaggio, dei piccoli sogni del risparmiatore legato ai saldi ed alle spicciolate di centesimi, che non esistono più.
La Levi’s non soffre solo di una febbriciattola passeggera: come i suoi pantaloni anche l’immensa jeanseria di San Francisco sta sbiadendo a confronto con la concorrenza. La Levi’s era nata nel 1850, per offrire ai minatori d’oro della California dei pantaloni fatti in un tessuto resistente e facile da lavare; negli anni Cinquanta indossare dei jeans era diventato un simbolo della ribellione giovanile, una Woodstock della moda, in una generazione che voleva cambiare il mondo. Ma proprio 30 anni dopo il più grande festival rock del mondo, la Levi’s ha perduto il proprio sex appeal tra i giovani: e in un mondo dei teenager dove bisogna essere “cool”, dove si va di moda se ci si veste bene, se si ascolta la musica giusta, se si guida l’auto del momento, la Levi’s non riesce a trovare la formula giusta per tornare a galla. E anche la Nike, fino a ieri regina indiscussa delle scarpette da jogging, scopre di aver saturato il mercato: calano le vendite, si cerca già un marchio nuovo, anche per far moda nelle strade dei ghetti. E intanto nascono nuovi marchi, ideati per il mercato telematico, al quale si adatta anche la catena di grandi magazzini Sears, che in questi giorni sta firmando un contratto di miliardi con Internet: il suo piano è di regalare computer ai consumatori, per farli diventare terminali coi quali comprare on line dai suoi cataloghi elettronici. La Sears ha alle sue spalle una clientela enorme: 66 milioni di consumatori che ogni anno rinnovano, fedelmente, la loro carta di credito. Presto li vedremo attaccati al computer, per comprare un frigorifero, una falciatrice, una macchina da cucire. Avranno nomi nuovi, da oggetti del Duemila, da sogni di una notte di mezza estate via Internet, facendo credere agli americani di trovarsi più vicini alle stelle.
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