
Alberto Frigerio: Te Deum laudamus perché mi vuoi servitore del tuo popolo

Come da tradizione, anche nel 2014 l’ultimo numero del settimanale Tempi è interamente dedicato ai “Te Deum”, i ringraziamenti per l’anno appena trascorso firmati da diverse personalità del panorama sociale, culturale e civile italiano e non solo. Nella rivista che resterà in edicola per due settimane a partire dal 31 dicembre, troverete, tra gli altri, i contributi di Angelo Scola, Asia Bibi, Louis Raphaël I Sako, Fausto Bertinotti, Luigi Amicone, Renato Farina, Mattia Feltri, Fred Perri, Aldo Trento, Pippo Corigliano, Annalisa Teggi, Alessandra Kustermann, Mario Tuti.
Pubblichiamo qui il “Te Deum” di Alberto Frigerio, ordinato sacerdote il 7 giungo a Milano
Il dischiudersi del nuovo anno, l’incalzante incedere del tempo, che istante dopo istante, giorno dopo giorno, consuma inesorabilmente la vita, la contingenza delle cose, che non c’erano e non saranno più, richiama potentemente il tema della speranza, la virtù che guarda al futuro.
Ha scritto Georges Bernanos che «la speranza è un rischio che bisogna correre». Come non avvertire, di fronte al dolore per il male fatto e subìto, davanti al dilagare di un’efferata violenza che imperversa in più parti del mondo, la verità contenuta nelle parole del grande intellettuale francese?
Che cosa fonda dunque la speranza? Questa domanda emerge in tutta la sua radicalità in tempi quali i nostri, pervasi dal diffondersi di un pensiero unico, di matrice laicista in Occidente, in cui la ragione, ridotta alla sola dimensione tecnica e strumentale, è slegata da ogni riflessione di carattere etico; e di matrice religiosa in Medio Oriente, in cui la fede, vissuta in chiave fondamentalista, è sganciata dalla ragione.
Che cosa dunque sostiene lo slancio della libertà in un frangente storico in cui trova piena cittadinanza la desolata constatazione del drammaturgo Ionesco secondo cui «non esiste la ragione assoluta, la ragione è sempre della maggioranza, noi non contiamo niente»?
Ciò che consente di correre il rischio della speranza è l’imbattersi in una realtà per cui valga la pena vivere e spendere la propria esistenza, come documenta l’esperienza elementare dell’amore, comune a ciascun uomo, in cui l’incontro con la persona amata rievoca e ridesta potentemente l’interesse per la vita in tutte le sue sfaccettature.
Ecco allora dominare in me un sentimento di gratitudine per l’anno trascorso, segnato dall’ordinazione presbiterale, in cui la chiamata graziosa di Cristo ha assunto una forma definitiva e perciò una strada chiara su cui camminare e impegnare la mia libertà.
Ma, come ha detto il cardinale Angelo Scola nell’omelia della Messa di ordinazione, «il prete è segregato in seno alla comunità», il prete cioè è preso dalla comunità per vivere dentro la comunità e servirla. Ciascuna vocazione, e in modo eminente quella del prete, è infatti espressione di un popolo ed è a sevizio del popolo, di un’amicizia.
Così è stato ed è per me. All’origine della mia fede c’è esattamente l’incontro gratuito con Cristo dentro la comunità cristiana, in cui ho visto un modo nuovo e profondamente umano di vivere, cioè di giudicare e, tentativamente, di trattare tutto, nulla escluso. È questo che ha fatto sorgere in me l’ipotesi di vivere la vita nella forma del sacerdozio, per collaborare all’edificazione del corpo di Cristo che è la Chiesa quale strada di vita buona da offrire ai fratelli uomini oggi più che mai bisognosi di senso.
L’avventura di non essere soli
Che cosa grande e avvincente! Nell’affascinante e arduo cammino della vita si può non essere da soli, si può essere sostenuti, corretti, sorretti da un Presenza buona, carica di intelligenza e affezione. Così, il soggetto nuovo che agisce sulla scena della storia è il popolo di Dio, generatore di cultura e operosità, che procede nella pacificante certezza che Cristo rinnova ogni singolo frammento dell’esistenza, pubblico e privato, personale e sociale: «Semen omnium Christus», diceva sant’Ambrogio.
Ecco la grande responsabilità del popolo di Dio, cooperare all’accadere e al protendersi di Cristo dentro l’esistenza, consapevoli che la verità incontrata (Gv 14,6), in quanto universale, è valorizzatrice ed è capace di abbracciare e compiere ogni riverbero di bene incontrato sulla strada, correggendo e lasciando da parte quanto vi è di spurio.
Che ciascuno di noi, «seguaci della via di Cristo» (At 9,2), possa edificare l’amicizia cristiana, luogo in cui brilla e prende forma l’amicizia con Cristo risposta al groviglio di domande che attanaglia l’uomo di sempre, coscienti che la nostra amicizia è per il mondo perché, come amava ripetere don Luigi Giussani, «l’amicizia è una forza sociale» (Huizinga).
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