Al Meeting uno strepitoso Eugenio Borgna sbranato dagli occhi di Giussani

Di Rodolfo Casadei
21 Agosto 2020
Vivere nell'epoca del nichilismo, un dialogo inedito e bellissimo tra il grande maestro della psichiatria italiana e l’allievo, filosofo e psicoanalista, Umberto Galimberti

Pretendere di fare la sintesi di un’ora di domande e risposte fra un docente universitario di storia della filosofia e due interlocutori che di nome fanno Eugenio Borgna e Umberto Galimberti sul tema “Le sfide del vivere nell’epoca del nichilismo” equivale a quello che il secondo dei due definirebbe un peccato di hubrys: la dismisura, la tracotanza umana che gli dèi dei greci puntualmente punivano. Alla fine va ringraziato Costantino Esposito che più come un titolista di giornale che come un professore di filosofia ha sintetizzato in due semplici frasi il messaggio dello psichiatra e saggista e quello del filosofo e psicanalista: Galimberti ha detto che solo nell’irrazionalità dell’amore c’è vera conoscenza; Borgna ha detto che se all’uomo è possibile non rinunciare all’infinito, ciò può accadere solo in un incontro.

«LE PAROLE SONO DEBOLI DAVANTI AGLI OCCHI CHE SBRANANO»

Urge precisare che quando parla di amore e della sua irrazionalità che contrasta con la razionalità tecnica oggi dominante Galimberti, da filosofo greco dei giorni nostri quale si dichiara, parla di eros; e che l’incontro di cui parla Borgna è quello che per tutta la vita don Luigi Giussani ha praticato e non solo scritto. E qui urge un’ulteriore precisazione: il 90enne Borgna ha citato il nome di Giussani nella mezz’ora complessiva dei suoi interventi almeno 30 volte. Non citazioni libresche o come «captatio benevolentiae» di un pubblico presumibilmente debitore ed estimatore del servo di Dio. «Le parole sono deboli davanti agli occhi che sbranano» è la frase che condensa le ragioni della venerazione di Borgna per Giussani, che non era un teologo, ma un cristiano «che nell’altra persona cercava continuamente la grazia di un incontro, perché solo nell’incontro con l’interiorità dell’altro scaturisce l’infinito» nella misura in cui è alla portata dell’esperienza umana.

«SONO COLPEVOLE DI NON AVER SEGUITO ABBASTANZA GIUSSANI»

“Sbranare” è il verbo più perfetto fino ad oggi ascoltato per definire lo sguardo che Giussani portava sulle persone alla ricerca della loro intimità nel mentre che esponeva la propria in un autosbranamento. E basta questo per collocare il colloquio Esposito-Borgna-Galimberti a un livello ben superiore al pur prezioso e necessario dialogo filosofico. Un livello tale per cui Borgna ha concluso dicendo «siamo tutti responsabili della vita senza significato che prevale oggi, e io sono colpevole di non avere seguito abbastanza Giussani, di essermi allontanato dalla sua profondità nell’incontro». Che detto da un uomo come Borgna, che nella sua vita ha saputo assorbire come una spugna l’intimo dolore di migliaia di donne e di uomini, fa tremare di vergogna chi era lì ad ascoltarlo. Un livello tale per cui Galimberti ha concluso dicendo «è così vero che solo l’amore conosce, che da quando è morta mia moglie mi sento spesso assente, ciò che è accaduto mi ha spento».

«SOLO IL PAZZO DICE “DIO È MORTO”»

Conclusione intimissima degli interventi del filosofo psicanalista che aveva perfettamente sintetizzato che cos’è nichilismo e qual è il problema del paradigma tecnologico oggi dominante. Il nichilismo: «Il nichilismo è la condizione psicologica e sociale nella quale il futuro non porta con sé nessuna promessa. Siamo tutti culturalmente cristiani, anche gli atei e anche quelli come me che si rifanno al pensiero greco. Perché per tutti noi il futuro è il tempo in cui si realizza pienamente il significato. Per il cristianesimo è il tempo della salvezza dopo la redenzione che caratterizza il presente e il peccato che caratterizza il passato; ma anche Marx, anche Freud credono nel significato del futuro, il tempo della nuova umanità prodotto della rivoluzione, il tempo della guarigione frutto della terapia. Al contrario dei greci, che collocavano l’età dell’oro nel passato e nel presente vedevano una decadenza. Il nichilismo è Nietzsche che fa dire al pazzo “Dio è morto”. Solo il pazzo può dirlo, perché dire che Dio è morto e che le chiese sono i suoi sepolcri vuol dire che non c’è più orizzonte, che non c’è più scopo, che il futuro non è qualitativamente diverso dal passato o dal presente. Non c’è più risposta alla domanda “Perché?”. E questo genera l’angoscia nei giovani che ho avuto in analisi, fino a spingerli al suicidio, perché non c’è più risposta alla domanda “perché devo vivere?”. I miei pazienti sono alla ricerca di un senso per la vita, ma il senso è il prodotto di una coscienza cristiana inserita nel tempo, che conosce un progetto che si fa storia. Le devianze dei giovani e dei non più giovani sono anestetici per sfuggire all’angoscia della mancanza del senso».

«L’UOMO È PARTE DI UN APPARATO TECNICO»

Il paradigma tecnologico: «La tecnica non è più uno strumento nelle mani dell’uomo, bensì l’uomo è diventato parte funzionale di un apparato tecnico. L’aumento quantitativo della tecnica ha prodotto un cambiamento qualitativo: oggi la tecnica è un modo di pensare, e di comunicare. È quel modo di pensare per cui gli unici criteri sono l’efficienza e la produttività, che non dischiudono nessun orizzonte di senso o di salvezza. Essere uomini significa essere funzionali ad un apparato tecnico. Non conta più la nostra coscienza, ma come i nazisti dei campi di concentramento ci occupiamo soltanto di eseguire efficientemente il compito affidatoci dall’organizzazione a cui apparteniamo. Senza i risultati truci del nazismo, oggi ragionano nello stesso modo gli operatori della finanza che vendono titoli tossici, gli impiegati degli uffici che applicano rigidamente le norme, ecc. Non siamo più responsabili di fronte alla nostra coscienza, ma davanti all’organizzazione. L’uomo in quanto uomo, coi suoi sentimenti, emozioni, irrazionalità è uscito dalla storia, la storia è storia della razionalità tecnica che si è emancipata dall’uomo. Lo hanno già scritto decenni fa Heidegger, Anders, Severino, ma ancora non lo vogliamo accettare». La reazione dovrebbe essere quella di accettare i limiti umani, come dicevano i greci. «Per i greci la felicità è eudaimonia, cioè realizzare il “daimon” che è in noi. Per questo bisogna conoscersi. E poi realizzare il daimon secondo la sua misura, senza eccedere. Oggi invece domina l’idea di aumentare sempre più le nostre potenzialità, illimitatamente».

«LA FOLLIA DI SPERARE NELL’INCONTRO»

Per Borgna il richiamo a vivere secondo i limiti umani deve coincidere col richiamo a vivere secondo il principio dell’interiorità. «Non c’è conoscenza autentica di noi stessi che nell’incontro con l’altro che mette a tema la tristezza, la solitudine, la nostalgia, il dolore che è nell’intimità dell’altro, perché è dalla coscienza di tutto ciò che parte il sentiero della speranza. Disperazione e speranza non sono opposti fra loro, si implicano reciprocamente, sono interdipendenti: l’ho ritrovato in Leopardi, in Bernanos (per chi vuole approfondire si consiglia il libro Speranza e disperazione di Borgna, ndr). L’ho visto accadere in certe mie pazienti, che hanno attraversato la cupa disperazione della depressione e ne sono imprevedibilmente uscite non grazie alla mia terapia, ma grazie al fatto di aver riscoperto una sorgente vitale che si trova nel cuore di ogni uomo, anche il malato psichiatrico, perché la follia è la sorella sfortunata della poesia. Quando riscopriamo la nostra interiorità, quella sorgente torna ad abbeverarci e ci guarisce. E così nascono le famiglie, questa dimostrazione di speranza che è memoria del futuro. E così “perdiamo” il nostro tempo ad ascoltare gli altri. Fino a quando succede che questo salva una vita. Basta aver salvato una sola vita per poter dire che la vita ha senso. Non dipende dalla quantità dei risultati, il significato della vita. Ma dal fatto che si esce dal deserto che ha portato via i sentimenti umani perché si continua a domandare e a cercare l’incontro vero con l’altro, e questo alla fine accade perché era possibile. La follia di sperare nell’incontro che dischiude l’intimità all’infinito era una fede in un incontro possibile».

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