Al danno di un sistema alla deriva mancava la beffa dello “school pride”

E così, dopo il professore messo in mutande dagli studenti, abbiamo i video del professore che mostra come si rolla una canna e gli studenti che se le fanno durante la lezione. Nel frattempo, uno studente per essersi fatto una canna è addirittura morto. Non diciamo certo che la scuola si riduca a questo. Anzi, siamo convinti che essa sia frequentata da milioni di ottimi ragazzi e da parecchi insegnanti che sono autentici eroi (altri insegnanti e molti genitori dovrebbero farsi un esame di coscienza). Ma il solo fatto che episodi come questi possano accadere dovrebbe allarmare al massimo anche chi già non sa, per esperienza diretta, che la scuola italiana attraversa una crisi drammatica.
In queste condizioni, il ministero ha risposto con la settimana dell’orgoglio scolastico proclamando: «Dal 19 al 25 maggio scuole aperte in tutta Italia, per far vedere che “La scuola siamo noi” e “noi non siamo quelli di YouTube”». E aggiungendo che «dopo mesi in cui la scuola italiana è stata al centro dell’attenzione mediatica per pochi episodi, seppur gravi, che ne hanno offerto un’immagine distorta, il ministro della Pubblica istruzione, Giuseppe Fioroni, ha invitato le scuole italiane a mostrare con orgoglio ciò che sono e a presentare i tanti progetti innovativi di tutti gli studenti e docenti che meritano di essere conosciuti». Un simile linguaggio sarebbe accettabile se quella della scuola non fosse una vera e propria emergenza nazionale per il crollo di due pilastri: disciplina e trasmissione di contenuti decenti, degni del nome di cultura. È quindi inaccettabile che ci si propini una retorica vacua e insulsa invece di operare in modo fattivo e silenzioso. Diamo atto al presidente Napolitano di aver risposto a questa indecorosa strombazzata ricordando che il ruolo della scuola «è essenziale nel contrastare fenomeni di bullismo e di prepotenza, educando a vivere nella comunità sociale (.) senza lasciare spazio a comportamenti fuorvianti e tantomeno alle tentazioni dell’alcolismo e delle droghe». E aggiungendo che è nella scuola che si deve produrre «quel patrimonio di cultura che è la risorsa più preziosa per il paese», tramite lo studio «che è ad un tempo fatica e alta gratificazione». Cultura e fatica. Parole che non appartengono al lessico del pedagogismo democratico-buonista, il quale non promuove la cultura bensì la metodologia, scienza dei nullatenenti. Secondo questa “scienza” all’insegnamento occorre sostituire il “processo dell’apprendimento”, in cui l’insegnante ha il ruolo di “socializzatore”, più o meno come gli animatori delle feste di compleanno infantili.
È avvilente scoprire che in una simile emergenza non si trovi di meglio che promuovere, nella settimana dello “school pride”, incontri su “il bambino a scuola come soggetto di diritti”. Dei doveri meglio non parlare, sarebbe “repressivo” e “reazionario”. E che dire dell’incontro in cui in aprile è stato presentato il progetto “Cultura scuola persona. Verso le indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione”? Preceduto da un’avvilente conferenza di Edgar Morin, l’incontro ha segnalato come la lobby dei pedagogisti “democratici” – ai quali farebbe bene una rilettura degli scritti in cui Antonio Gramsci spiega come la scuola debba insegnare la disciplina e la capacità di applicarsi con fatica, sacrificio e costrizione allo studio – non soltanto non molla la presa, ma rincara la dose, incurante dei disastri che ha provocato e del suo stesso naufragio culturale.

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