
Altro che America, la nuova terra delle possibilità è l’Africa nera
È ancora la regione del mondo che presenta il reddito pro capite più basso di tutti, qualunque criterio di calcolo si adotti, ma da una dozzina di anni sta progredendo coi tassi di crescita più alti del mondo. Stiamo parlando dell’Africa sub-sahariana, il vasto territorio a sud del più grande deserto del mondo che ospita 48 Stati e quasi un miliardo di abitanti (920 milioni circa a metà del 2013). Mentre i paesi del Nordafrica (Mauritania, Marocco, Algeria, Tunisia, Libia ed Egitto) da quasi tre anni stanno attraversando profonde, drammatiche e contraddittorie trasformazioni politiche, e queste frenano grandemente la crescita economica, l’Africa nera si gode una certa stabilità e la traduce in aumenti di Pil. Guerre e guerriglie non mancano nemmeno lì: in ben 17 paesi sono attivi più di 100 gruppi armati. Tuttavia quindici anni fa la situazione era molto peggiore: i conflitti allora erano tantissimi e più estesi, le vittime più numerose.
Dunque, anche grazie a un ridimensionamento dei suoi endemici conflitti, l’Africa nera è in pieno boom economico. Da tredici anni a questa parte (2000-2012) il Pil dei paesi dell’Africa sub-sahariana cresce a un tasso medio annuo superiore al 5 per cento. L’anno scorso la crescita è stata del 5,1 per cento, mentre per quest’anno il Fmi prevede un +5,4, e per l’anno prossimo un +5,7. Negli ultimi tredici anni c’è stata una flessione della crƒescita solo nel 2009, in corrispondenza degli effetti della crisi finanziaria internazionale, allorché il Pil è cresciuto solo dell’1,7 per cento. La crescita costante del Pil africano ha già attirato capitali e investimenti. Nel 2011 secondo le Nazioni Unite gli investimenti diretti in Africa sono stati pari a 42,7 miliardi di dollari. Per farsi un’idea della portata della cosa, si tenga presente che la celebratissima Cina nello steso periodo ha ricevuto circa 110 miliardi di dollari di investimenti diretti dall’estero, cioè due volte e mezzo di più. Tenete anche conto che la Cina ha 1.350 milioni di abitanti, cioè un terzo in più degli abitanti dell’Africa nera. Secondo i dati Ernst&Young, la grande società di revisione finanziaria, gli investimenti esteri diretti a destinazione dell’Africa in percentuale sul totale mondiale sono passati dal 3,2 per cento del 2007 al 5,6 del 2012.
A cosa è dovuto il boom economico dell’Africa? Essenzialmente è dovuto al boom internazionale del prezzo delle materie prime, accompagnato da alcuni sviluppi politici locali che hanno permesso ai paesi del continente di sfruttare economicamente questo boom. L’Africa è ricca di minerali e di fonti energetiche quali petrolio e gas, molte delle quali sono entrate in produzione negli ultimissimi anni, e di materie prime agricole, come il cotone. Presenta il 15 per cento di tutti i combustibili minerali e fossili, il 20 per cento dell’oro è il 50 per cento dei diamanti del mondo. Le riserve minerarie africane sono le prime o le seconde del globo per minerali come la bauxite, il cobalto, i fosfati minerali, i metalli del gruppo del platino, la vermiculite e lo zirconio. Il boom del prezzo delle materie prime è dovuto, come sanno tutti, al boom economico dei giganti dell’Asia, cioè Cina e India. L’industrializzazione, l’urbanizzazione e la motorizzazione di Cina e India stanno trascinando all’insù i prezzi delle materie prime, nonostante la stagnazione dell’Europa. Il boom economico dell’Africa nera è figlio del boom economico dell’Asia.
Si sta ripetendo lo schema degli anni Sessanta e Settanta, quando i paesi africani, divenuti indipendenti quasi tutti in quel periodo, conobbero uno sviluppo trainato dall’alto prezzo delle materie prime, sfruttando l’onda lunga della ricostruzione e della re-industrializzazione dell’Europa. Negli anni Ottanta e Novanta si ebbe poi un crollo dell’economia africana all’indomani degli shock petroliferi, quando in Occidente ci si orientò verso un’economia meno dipendente dalle materie prime, comprese quelle energetiche. In Africa gli anni Ottanta e Novanta hanno visto guerre, carestie, la pandemia dell’Aids e molti altri disastri che hanno aggravato povertà e sofferenze umane. Dopo il 2003, la situazione politica è migliorata e la maggior parte dei conflitti sono finiti o si sono attenuati. Ci sono state riforme macroeconomiche e microeconomiche che hanno reso possibile uno sviluppo basato essenzialmente sull’export delle materie prime, oggi come 50 anni fa.
Il fenomeno land grabbing
Dunque ancora non si può parlare di sviluppo endogeno, di “tigri africane” o di decollo del continente. Non c’è progresso vero in Africa, non c’è un modello di sviluppo sano, non c’è una vera industrializzazione e modernizzazione dell’economia: c’è un boom economico dovuto agli alti prezzi delle materie prime, i cui corsi sono stati risollevati dall’industrializzazione dell’Asia. Illuminante rispetto alle attuali dinamiche è l’esempio del Ghana, un paese dell’Africa occidentale che ha 25 milioni di abitanti: l’anno scorso ha visto il suo Pil crescere del 14 per cento, semplicemente perché sono entrati in funzione i suoi pozzi petroliferi, con una produzione di poco inferiore ai 100 mila barili al giorno. Ne produce di più l’Italia, con una media attorno ai 146 mila all’anno. Altro fenomeno che rende l’idea di un continente che non sfrutta le opportunità di crescita e sviluppo a sua disposizione è quello del cosiddetto “land grabbing”, l’acquisto o affitto di terre fertili da parte di stranieri intenzionati a esportare nei loro paesi tutta la produzione agroindustriale. La prospettiva della scarsità di terre coltivabili e di prezzi sempre più alti nel futuro sta spingendo i paesi con grandi bisogni alimentari o con poche terre coltivabili ad acquistare quelle ancore incolte in giro per il mondo. Si calcola che, a fronte di superfici coltivate per 1,5 miliardi di ettari, ne esistano 445 milioni di ettari inutilizzati, concentrati principalmente in Africa e America latina. Paesi come Cina, Giappone, Corea del Sud, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti firmano contratti di acquisto o di affitto a lungo termine di queste terre. Nel solo 2009 risultavano finalizzati o quasi contratti per 56,6 milioni di ettari di terre fertili inutilizzate, 39,7 dei quali in Africa. Queste cessioni riguardano quasi sempre paesi dove forti quote di popolazione soffrono di insicurezza alimentare e molti redditi dipendono dall’agricoltura. Non solo tali terre vengono sottratte alla possibilità di espansione dell’agricoltura per il consumo locale, ma la maggior parte di esse non viene utilizzata per l’alimentazione: risulta che il 59 per cento dei contratti preveda l’uso della terra per la produzione di biocarburanti e il 19 per cento per mangimi animali, legno e fiori.
Le opportunità per gli imprenditori e gli investitori stranieri non si presentano solo nel business dell’agroindustria. Due ambiti emergono in particolare: la spesa pubblica per infrastrutture e servizi; la spesa del consumo privato della nascente classe media urbana. L’Africa nera è drammaticamente sottoinfrastrutturata: mancano le strade, le ferrovie, le centrali elettriche, le raffinerie, gli acquedotti, le fogne, le reti. In una congiuntura che vede una certa disponibilità di finanza pubblica, costruttori di ogni genere avranno grandi opportunità quasi ovunque. In secondo luogo, l’Africa nera presenta ormai una classe media urbana di colletti bianchi, dipendenti del settore pubblico e delle multinazionali, con un potere d’acquisto crescente. La spesa per consumo nell’Africa nera è arrivata a 900 miliardi di dollari, e secondo le proiezioni arriverà a 1.400 miliardi nel 2020. Nei primi dieci anni del XXI secolo, tanto per fare un esempio, 316 milioni di africani hanno acquistato un cellulare. Secondo le proiezioni del McKinsey Global Institute, nel 2020 128 milioni di famiglie africane avranno a disposizione reddito per spese voluttuarie. Si tenga presente che una famiglia africana ha normalmente 6 membri, cioè i genitori e 4 figli. Naturalmente l’Africa presenta anche molti ostacoli per imprenditori e investitori stranieri: burocrazia inefficiente o corrotta, alti tassi di criminalità, insicurezza diffusa, mancanza di infrastrutture per attività produttive e la presenza di competitori privi di scrupoli. Eppure le imprese straniere non si sono mai ritirate del tutto dall’Africa, nemmeno nei momenti peggiori.
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bello
leggilo e’ interessante