Aborto fai da te

Di Emanuele Boffi
21 Settembre 2006
In Francia aumentano i casi di chi sceglie di "risolvere la pratica" tra le mura di casa. Cosa ne pensano Armeni, Frigerio, Kustermann, Roccella

Una recente inchiesta del quotidiano francese Le Monde ha raccontato di come nel 2005 circa 10 mila aborti su 200 mila siano stati praticati al di fuori delle mura ospedaliere. Per il ministro della Sanità transalpino il fenomeno è destinato ad aumentare tanto che, secondo un primo bilancio, a fine 2006 potremo accorgerci che gli aborti casalinghi saranno arrivati a raggiungere la cifra di 1.500 al mese.
Ritanna Armeni («pur non volendo banalizzare la questione come un atto che si pratica tra il bagno e il tinello», dice a Tempi) ha parlato della questione in termini positivi su Liberazione. «O perlomeno problematici. Posto che io non farei mai una simile scelta, mi sono chiesta cosa abbia spinto le donne francesi a sfruttare tale opzione». Armeni ne vorrebbe almeno discutere «perché oggi, a quasi trent’anni dalla legge sull’aborto, tutti noi vediamo che problemi ne esistono ancora: la burocrazia che costringe le donne a interminabili trafile da un ufficio all’altro, infermieri spesso scortesi, il fatto che l’80 per cento dei medici facciano obiezione di coscienza». Sul Foglio la vicenda è stata commentata in altro modo, come «l’aborto fatto in casa, tra il sofà e il cesso, da sole». «Ma no, non credo sia così. Infatti ho insistito nel nel descrivere quali siano le fasi prescritte dalla legge per l’aborto fra le mura domestiche. Quindi, poste tali garanzie, non comprendo come si possa parlare di solitudine. Anzi, forse il poter abortire in casa permetterebbe di avere al proprio fianco la persona amata e godere del suo conforto. Non è solitudine, è libera scelta».
D’altro avviso la giornalista e scrittrice Eugenia Roccella: «è orripilante», dice a Tempi. «Un conto è chiedere la libera scelta, un conto è far eseguire un aborto alle donne». Secondo quanto descritto dal Monde e riportato dall’Armeni, l’aborto domestico si svolge così: «La donna parla con il medico, dà il suo consenso scritto, prende una compressa per bloccare l’ormone necessario a mantenere la gravidanza, poi un’altra per provocare l’espulsione dell’ovulo, infine verifica in un altro appuntamento con il medico che l’interruzione di gravidanza ci sia effettivamente stata. Il tutto deve avvenire entro le prime sette settimane. Dopo è consigliabile il ricovero in ospedale».
«Ma tutto questo – sbotta Roccella – capiamo cosa significa? È un aborto doloroso, è la donna che deve capire se i dolori sono importanti o meno, è lei a vedere il flusso sanguigno, è lei a vedere l’embrione, deve capire lei se prendere antidolorifici o meno; tutto questo se lo deve gestire da sola. L’aborto diventa solitudine. Non è la clandestinità, ma in un certo senso assume la forma di una scelta solitaria e clandestina».

Un modo per scaricare la coscienza
In un passaggio del suo articolo Armeni si dichiara scoraggiata che di tali opzioni non si possa parlare in Italia. Tutti ben conosciamo, scrive, «le obiezioni che l’introduzione della pillola Ru486 ha incontrato. Ci sarebbe sicuramente l’opposizione di chi, ritenendo l’aborto una colpa delle donne, pensa sia giusto che esse paghino almeno il prezzo di un’operazione chirurgica, provino la vergogna, affrontino la burocrazia e la lentezza delle strutture ospedaliere». La Armeni, che in marzo ha dato alle stampe La colpa delle donne (Ponte alle Grazie), spiega a Tempi di non essere affatto «insensibile alle preoccupazioni espresse, a livello della salute delle donne, da chi, come Roccella, è contraria alla Ru486. Ma non credo che una pillola possa togliere drammaticità all’aborto, che rimane comunque una scelta dolorosa e drammatica. è solo un’opzione».
La medesima posizione è espressa da Alessandra Kustermann, medico ginecologo abortista dell’ospedale Mangiagalli di Milano. «La Ru486 è un’opzione: per alcune va bene, per altre no. Sicuramente è interessante il suo utilizzo nei paesi del Terzo mondo, dove le condizioni igieniche degli ospedali sono peggiori di quelle di casa». Eppure, chi è contrario alla kill pill, come la chiamano negli Stati Uniti, ne elenca la pericolosità. «La Ru486 non è sicura?», ribatte Kustermann. «Ma lei lo sa che l’aborto chirurgico ha un 4 per cento di complicanze? La Ru486 è come un’aspirina, la si prende e ci si avvia sulla strada che porterà ad abortire. In realtà noi ginecologi con la pillola potremmo seguire di più la donna. Ma il punto è che è meglio per noi medici perché ci scarichiamo la coscienza. Per noi abortisti l’atto chirurgico impone un impegno psichico molto più duro che non la prescrizione di questo farmaco».
Armeni comprende le parole del medico milanese: «Certo che le capisco. Sono figlie di una comprensibile frustrazione. Oggi chi non fa obiezione di coscienza spesso si riduce a massacranti tour de force di interruzioni di gravidanza. La pillola è la soluzione per ovviare anche a questi problemi».

La Ru486 non la vogliono le donne
Era il 14 gennaio quando le femministe di “Usciamo dal silenzio” percorrevano le strade di Milano scandendo lo slogan «Ru486 con o senza il permesso della Cei». Ma per la laica Roccella, che in passato guidò associazioni femministe, la contrapposizione sulla pillola a partire da differenze religiose è un abbaglio. Il suo recente libro La favola dell’aborto facile. Miti e realtà della pillola Ru486 è tutto volto a smontare l’idea che la kill pill sia sicura. A meno di voler pensare che i dubbi sulla pillola espressi dal New York Times, dalla Food and Drug Administration americana e dalle più importanti riviste scientifiche internazionali siano figlie di lezioni di catechismo. Per la giornalista, la Ru486 è una soluzione indotta. «è usata in paesi che hanno altri interessi da preservare, diversi dalla salute delle donne». Esempi? «La Francia è la patria della Ru486 anche perché il governo è proprietario del 36 per cento della ditta che la distribuisce. Questo spiega la massiccia campagna in suo favore, così come in Svezia, altro paese in cui è diffusa e che ha anch’esso interessi “chimici” da difendere». Al contrario, «in Olanda, Grecia e Germania non è quasi utilizzata». In Australia, a fronte di una poderosa campagna per l’introduzione, «adesso non vogliono quasi più nemmeno distribuirla». Questo per dire che «la richiesta non viene dalle donne, ma è indotta da fattori esterni».

Se non lo dico, non è persona?
Dice Armeni che «l’aborto è un problema che non risolveremo mai». Kustermann spiega che, quando si trova di fronte a una nuova paziente, «la prima cosa che le dico è che non ho fatto obiezione di coscienza. Credo così di poter essere più libera nei suoi confronti. Cerco, quindi, di stabilire con lei una forte relazione empatica perché, come tutti sappiamo, il dolore per la perdita di un figlio è il dolore più profondo che si possa provare. Il lutto per la scelta dell’aborto, se non è elaborato, te lo porti dietro per tutta la vita». La dottoressa è sincera quando dice che «io un aborto non lo farei mai. Comunque è tuo figlio. Ma si può accettare di non sapere. Faccio tutto il possibile per aiutare la donna a retrocedere dalla sua scelta, ma di fronte a un “no” assoluto, io mi tiro indietro. Una volta che per quella coppia è inaccettabile avere un bambino, allora io salvaguardo la madre per il figlio. Anche se, certo, un pensierino per il feto c’è sempre».
Luigi Frigerio è primario ginecologo agli Ospedali Riuniti di Bergamo. Con la Kustermann, che assicura di stimare al di là delle opposte scelte in materia di tutela della vita, ha lavorato negli anni passati nella clinica Mangiagalli. «Il suo ragionamento a mio modo di vedere non fila. Per un semplice motivo: c’è di mezzo la vita di un’altra persona. Il discorso non regge, è figlio di una censura. Non è un problema di “autodeterminazione”, ma di realtà dei fatti».
Ha scritto il sociologo Luc Boltanski nel suo La condition foetale che trent’anni d’aborto in Francia hanno posto uno iato incolmabile fra «esseri umani della carne» e «esseri umani confermati dalla parola». Se non lo dico, il feto non è persona. E invece per Frigerio «occorre dirlo, non “accettare di non sapere”. L’aborto non scomparirà mai? Non so. Ma esistono tanti centri di aiuto alla vita (so che la mia ex collega è in stretto e lodevole contatto con quello della Mangiagalli) che operano affinché si possa fino all’ultimo offrire un’alternativa a chi ha scelto l’aborto».

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