
A margine di una decisione della Consulta molto più politica che giuridica

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Si può condividere anche completamente, pienamente, integralmente, la sentenza con cui il 24 gennaio la Corte costituzionale ha in gran parte «cassato» il sistema elettorale varato dal Parlamento italiano, e passato alle cronache con il nome di «Italicum». Si può anche essere d’accordo sul fatto che quel sistema, approvato definitivamente nel maggio 2015 da una maggioranza composta da alcuni dei deputati e dei senatori meno competenti e meno preparati nella storia della Repubblica, fosse mal congegnato e perfino mal scritto in più parti. Si può perfino concordare con la censura esercitata dai giudici della Consulta su questo o su quello specifico punto della norma.
Resta comunque un fatto inoppugnabile: come tante pronunce che l’hanno preceduta, anche quest’ultima sentenza della Corte costituzionale sembra molto «politica», più che giuridica. Serve prudenza, è ovvio: la motivazione della sentenza non è ancora uscita e bisognerà leggerla, per capire come i giudici hanno deciso di decidere. E sicuramente, da quegli ottimi giuristi che sono, hanno operato nel pieno rispetto della legittimità costituzionale. Però, sommessamente e pacatamente, questa rubrichetta vorrebbe tanto che qualcuno ci spiegasse bene e fino in fondo in che cosa è davvero «incostituzionale» questo o quell’elemento fondante della legge elettorale che è stato soppresso.
Per esempio: il doppio turno, una delle caratteristiche del defunto Italicum. Dove sta scritto, nella nostra Costituzione, che le elezioni devono svolgersi in un turno unico? E perché mai, se oggi la Consulta dice che il doppio turno è incostituzionale per le elezioni politiche nazionali, in Italia da anni eleggiamo i nostri sindaci ricorrendo in tanti casi a un ballottaggio che si svolge due domeniche dopo il primo turno? Misteri (costituzionali) italiani. Non è certo la prima volta che la suprema Corte, baluardo della nostra Legge fondamentale, produce valutazioni che in realtà sono intrinsecamente politiche. È già accaduto su tanti referendum, alcuni dei quali sono stati cassati forse un po’ troppo frettolosamente.
È accaduto anche su certe leggi, e in alcuni casi ancora resta un gusto amaro. Per esempio sul blocco della contrattazione e soprattutto delle indicizzazioni delle retribuzioni nel pubblico impiego: ricorderete forse (chissà: pochi giornali ne hanno parlato…) che la Corte nell’ottobre 2012 dichiarò parzialmente incostituzionale una legge del luglio 2010, intitolata «Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica». Quella norma bloccava proprio gli adeguamenti automatici degli stipendi.
Ebbene, che cosa stabilirono i magistrati della Consulta? Che tutti i pubblici dipendenti potevano essere sottoposti al taglio, tranne i magistrati. Perché mai? Ma è evidente: perché la norma avrebbe violato il principio per cui il trattamento economico dei magistrati non sarebbe «nella libera disponibilità del potere, legislativo o maiori causa del potere esecutivo» trattandosi di un aspetto essenziale all’attuazione del precetto costituzionale dell’indipendenza.
L’assunto è stato più volte ribadito dalla Corte costituzionale: l’adeguamento automatico è un elemento intrinseco della struttura delle retribuzioni dei magistrati, diretto alla «attuazione del precetto costituzionale dell’indipendenza». Costituzionale, no? Esattamente come il principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Solo che alcuni sono più uguali degli altri, come capitava a certi personaggi nella Fattoria degli animali di George Orwell.
Foto Ansa
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