A Lugano il film festival dei diritti umani. Basterà a scuotere le nostre coscienze?

Di Elisabetta Ponzone
24 Settembre 2014
Nella città svizzera la prima edizione di una rassegna che accende una luce sulle vicende e le storie di paesi spesso dimenticati. Ogni pellicola si porta dietro un dibattito

timbuktu-cannes-2014-6Esiste una legge che tutela ogni essere umano nei suoi diritti? È quello che si chiede un team di avvocati elvetici a caccia di criminali di guerra nel film “Chasseurs de crimes”. Un passo indietro. Reload.
Da giovedì 25 a domenica 28 settembre a Lugano va in scena, dopo Zurigo e Ginevra, la prima edizione del festival sui Diritti umani con un programma ricco di film d’autore e documentari internazionali certamente unici con dibattiti e un parterre d’eccezione. Una per tutti, Carla Del Ponte, già procuratore capo del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia, oggi membro della Commissione internazionale indipendente d’inchiesta Onu sulla Siria.

Basterà a scuotere le coscienze un festival sui drammi dell’umanità in un momento così feroce come il nostro presente? Le pellicole in programma saranno in grado di fermare e far riflettere le persone sulla condizione dell’uomo nel mondo? La mia amica Agnes ha quarant’anni e oggi vive a Kampala, in Uganda. Per tredici anni è stata costretta a fare cose terribili perché rapita dai guerriglieri che per 20 anni hanno bruciato i villaggi del nord, rapendo bambini obbligandoli a diventare soldati e violentando le donne. Ad Agnes è successo tutto. E di più. Ora dal Meeting Point International, una Ong locale che lavora con l’internazionale Avsi prendendosi cura di persone malate di Aids, non ha dubbi: «Tutte le leggi del mondo non salveranno mai l’uomo. È solo il suo cuore che può salvarlo: il cuore dell’uomo non ha razza né colore, desidera solo essere amato. Se riusciremo a ridestare nel cuore delle persone questo sentire, allora non ci saranno più crimini contro l’umanità». Che sfida! Riflettendo, ritorno su Lugano.

Il giovedì la rassegna apre con “Watchers of the sky” racconta con coraggio la vita di Raphael Lemkin, avvocato polacco dell’allora Russia imperiale che coniò la parola “genocidio” interessandosi alla persecuzione degli armeni. «La nostra intera eredità culturale – affermava Lemkin – è il prodotto del contributo di tutti i popoli. Quanto più povera sarebbe la nostra cultura se come per esempio gli ebrei, non avessero avuto il permesso di creare la Bibbia o di far nascere un Einstein, se ai polacchi non fosse stata data la possibilità di donare al mondo un Copernico, una Curie e ai Greci un Platone». Un documentario che ci riporta alla ricerca di un’azione contro “la globalizzazione dell’indifferenza”, come ricordava anche papa Francesco quest’estate da Lampedusa.

Il film più atteso è “Timbuktu” di Abderrahmane Sissako, maestro storico del cinema africano che, dopo “Bamako”, con la sua poesia questa volta si infila nella polvere di un villaggio del Sahel fra la Mauritania e il Mali per raccontare la fine di tutto: del gioco, dei diritti delle donne, della vita. Intervallando la violenza inaudita delle milizie jihadiste con la bellezza della giovane Kidane, la pellicola, cui è dedicata la cerimonia d’apertura del festival (venerdì ore 20.45), riflette sulla clemenza e il perdono, richiamando all’autenticità della fede.

Rimanendo in Africa, “Rwanda: la surface de réparation” cerca di raccontare il futuro di una nazione guardando alle ferite passate a vent’anni dal genocidio, con Eugène Murangwa, ex portiere della nazionale di calcio, che torna in Ruanda, suo paese natale e fonda una scuola di calcio a Kigali. Da lì una riflessione profonda che mi fa pensare alle parole dell’amico Giovanni Galli: psichiatra infantile, durante il genocidio era proprio laggiù come volontario in un orfanotrofio; lì aveva trovato appollaiato da giorni su un albero un bambino che non voleva scendere perché era stato vittima e testimone del massacro della sua intera famiglia. «Mi sono seduto sotto l’albero e ho aspettato per giorni. Non mi sono mosso. Gli ho fatto sentire che gli volevo bene». Oggi è bello sapere dai miei amici di Kigali che Antoine è un adulto e che grazie al sostegno a distanza è riuscito a diventare geometra e a costruirsi un futuro.

Sabato, la rassegna apre con “Dang An-The Dossier”, un viaggio di Tsering Woeser, scrittrice e poetessa tibetana, autrice di un blog che dal 2009 cerca di dare voce al popolo tibetano, in difesa della libertà di espressione e dell’uguaglianza etnica tra cinesi e tibetani.

Le palline arancioni che percorrono le strade mediorientali in “Everyday Rebellion” dei bravi fratelli Arash e Arman Riahi, presentano un documentario certamente unico nel suo genere che narra le tecniche dei social media utilizzate dai giovani di tutto il mondo per protestare senza violenza e con (a volte anche ironica) determinazione.

Boris Gerret è il filmmaker di “Shado’Man” che sembra essere riuscito a riprendere il rumore del silenzio degli ultimi, di chi vive nelle tenebre della notte in una buia Freetown, capitale della Sierra Leone, oggi alla ribalta per l’epidemia di ebola, dove un commovente esercito di storpi ridefinisce il significato di dignità umana, riscattando rispetto e facendoti anche sorridere.

La domenica del festival si chiude con le donne. Invisibili, sottomesse, emarginate in un paese dove i matrimoni forzati per le ragazzine sono una consuetudine e il 70 per cento delle donne è analfabeta, nel 2011 le donne dello Yemen si ribellano diventando le protagoniste della sollevazione popolare che nello spazio di un anno mette fine a oltre 30 anni di regime di Ali Saleh. “La rivoluzione delle donne in Yemen” della raffinata giornalista Manon Loizeau, propone un percorso di pace e dialogo per una democrazia umana ancora difficile, ma certamente possibile.

Cerimonia di chiusura, infine, con “Silvered Water” (già amato al festival di Cannes come il film sulle donne yemenite), un self-portrait della Siria di Ossama Mohammed, siriano esiliato in Francia, dove un bimbo cammina tra bossoli e macerie, indicando i luoghi dei cecchini. Utilizzando filmati grezzi postati su youtube dai giovani, il film intreccia una strana relazione tra il regista e la sua giovane allieva, la cineasta curda Simav, che ha deciso di filmare la rivoluzione per fuggire la morte.

Ogni pellicola si porta dietro un dibattito. Ma il punto è cercare di capire cosa potrà mai rimanere dopo questo festival: cosa ci porteremo dentro? Come non dimenticare il rumore delle carrozzine dei giovani feriti, nel corpo e nell’anima, di Freetown? Come guardare al bambino tra le macerie della Siria come fosse nostro figlio? In poche parole, come riuscire a restituire all’umanità offesa la sua dignità? Forse partendo proprio dal cuore, come suggerisce la mia amica Agnes in Uganda.

Il festival: http://www.festivaldirittiumani.ch/festival

I film: http://www.festivaldirittiumani.ch/programma

Info e prezzi: http://www.festivaldirittiumani.ch/info-pratiche

Attenzione che il primo giorno la rassegna si tiene alla Franklin University (zona Sorengo), mentre continua e termina al CineStar (via Ciani 100, percorrendo dalla città il fiume Cassarate fino quasi al palazzetto del ghiaccio Resega).

Per viaggiare in autostrada in Svizzera dovete comperare la vignetta, in dogana: costa 33 .- euro e dura fino al 31 gennaio 2015. Oppure uscite prima della dogana.

Se riuscite, andate a vedere l’ampia e deliziosa retrospettiva su Hans Richter “Il ritmo dell’avanguardia” al museo d’Arte di Lugano.

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