
«A Bruxelles rischia di dominare la retorica. Le relazioni nell’Ue sono come 100 anni fa»
«Chi pensa che l’eterna questione della pace e della guerra in Europa non si ponga mai più potrebbe sbagliare seriamente. I demoni non sono andati via, dormono soltanto, come hanno dimostrato le guerre in Bosnia e Kosovo. A me sorprende come le relazioni europee del 2013 assomiglino a quella di cento anni fa». Sono le parole con cui pochi giorni fa Jean-Claude Juncker, primo ministro lussemburghese ed ex presidente dell’Eurogruppo, ha espresso il suo timore per il ritorno dei nazionalismi in Europa. Intanto a Bruxelles si è concluso l’ennesimo inconcludente vertice dell’Unione europea. Tempi.it ha chiesto un commento sulla situazione di stallo a Luís Miguel Poiares Maduro, che insegna a Yale, Chicago, Londra, Madrid e Lisbona ed è direttore del Global governance programme presso l’Istituto universitario europeo (Eui).
Nel comunicato finale dell’Eurovertice si parla di crescita e lavoro, ma servono fatti.
Indubbiamente sono parole molte belle, anche se nel concreto è ancora poca l’interazione tra i governi europei in materia. E non è che questo consiglio dell’Unione europea ci abbia offerto qualche soluzione in più… Non dimentichiamoci che l’idea di un piano europeo per la crescita è stata lanciata a giugno 2012 ed è già passato quasi un anno. Ha detto bene il presidente della Commissione europea José Barroso: l’impegno comune su questi temi è «too low and too slow», ossia «troppo poco e troppo lento». Insomma, c’è il rischio che domini la retorica.
Ma i capi di governo che strada hanno deciso di seguire per uscire dalla crisi?
Il percorso che si vuole intraprendere sembra essere quello di coniugare la crescita economica a un’austerità più sostenibile, come testimonia l’apertura verso una maggiore flessibilità nell’applicazione delle regole di bilancio, i limiti al deficit. Detto questo, però, non credo che l’Europa farà grandi passi avanti prima delle elezioni in Germania del 22 settembre. Al massimo, potrà essere concessa maggiore elasticità ai grandi paesi in difficoltà come Francia e Italia. Di sicuro non assisteremo a grandi sviluppi per l’economia dell’eurozona attraverso l’adozione di politiche per la crescita e la lotta alla disoccupazione. Non adesso almeno.
L’Unione europea, però, continua a chiedere agli stati membri di fare riforme strutturali.
Le riforme strutturali sono necessarie, anche perché in Europa è la perdita di competitività ad essere strutturale e l’elevata disoccupazione, che non è socialmente sostenibile, è una conseguenza. E non potranno mai esserci politiche serie per la lotta alla disoccupazione e per favorire la crescita in assenza di riforme strutturali a livello di stato e mercato del lavoro. Programmi di aggiustamento, del resto, sono già stati adottati da Italia, Grecia, Irlanda, Portogallo e indirettamente anche dalla Spagna.
Che futuro vede per l’Europa?
Il primo ministro del Lussemburgo ed ex presidente dell’Eurogruppo Juncker si è detto sorpreso che oggi le relazioni tra Stati europei assomiglino a quelle di cento anni fa e non ha tutti i torti. Speriamo che i nostri governanti traggano insegnamento ricordando a quali conseguenze portarono… Di fronte a queste considerazioni, intanto, mi viene voglia di citare il nuovo papa Francesco, che ha detto: «Non cediamo al pessimismo». Il suo richiamo alla solidarietà e a una maggiore responsabilità verso chi soffre è senza dubbio molto importante oggi. Anche perché la risposta alla crisi, di certo, non può essere dettata dal fascino dell’antipolitica. In Italia lo stiamo vedendo coi nostri occhi. Semmai c’è bisogno di una nuova politica. Anche in Europa.
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