
La giustizia creativa di De Magistris e Genchi
Terza puntata della nostra inchiesta sui fatti che hanno portato al rinvio a giudizio dell’ex sostituto procuratore di Catanzaro Luigi De Magistris, oggi sindaco di Napoli, e del suo consulente Gioacchino Genchi, che dal 17 aprile dovranno difendersi davanti al tribunale di Roma (qui la prima puntata e qui la seconda).
Di seguito pubblichiamo alcuni stralci dell’articolo che apparirà domani su Tempi in edicola.
(…) Quando il 13 marzo del 2009 i carabinieri del Ros di Roma piombarono nel capoluogo siciliano e blindarono praticamente tutto l’universo di Gioacchino Genchi, perquisendo case e uffici e interrogando familiari, parenti e dipendenti, sentirono anche il signor Francesco Meli di Castelbuono (il paese di provenienza dello stesso Genchi, in provincia di Palermo), di professione commerciante. Che lavorava anche per lui. Dovendo illustrare agli uomini del Reparto indagini tecniche del raggruppamento speciale dei carabinieri quali fossero le sue mansioni all’interno della C.S.I., Meli disse: «Preciso che ogni Pc connesso alla rete Lan interna all’ufficio aveva il nome di un politico; ricordo ad esempio che il mio si chiamava “Fini”, il server a cui accedevo si chiamava “Prodi”, quello di Genchi Gioacchino era “Bossi”, quello usato da Sanfilippo (stretto collaboratore di Genchi, ndr) si chiamava “Mastella” e così via, anche se sottolineo che il nome della macchina era meramente indicativo e non attinente alle attività». Tutto ciò non significa nulla, ovvio, se non che in quell’ufficio probabilmente si respirava tanta di quella “politica” da far sembrare naturale attribuire i nomi dei leader perfino ai computer. Che proprio Prodi e Mastella poi siano finiti nel tritacarne azionato a Catanzaro, fu sicuramente una banale coincidenza.
A proposito di tritacarne, si è molto discusso nel corso del tempo se, tra le pratiche semi-ortodosse seguite in quel di Catanzaro, potesse rientrare la facoltà di travasare atti da un procedimento all’altro. De Magistris lo fece con il materiale di “Poseidone”, che fu riversato in “Why not” dopo che la prima inchiesta gli fu tolta di mano. E lo fece pure con alcune famose intercettazioni di conversazioni telefoniche tra Clemente Mastella e l’imprenditore calabrese Antonio Saladino, compiute dai carabinieri di Lamezia Terme tempo prima. In merito alla liceità della procedura ci sono diverse scuole di pensiero, ma, in ogni caso, il tribunale del riesame di Catanzaro si pronunciò favorevolmente sulla scelta investigativa dell’ex pm. Una volta tanto. Si tratta di fatti conosciuti e di argomenti già sviscerati dai resoconti giornalistici dell’epoca. Meno noto, probabilmente, è che la disinvoltura e l’irritualità potessero spingere i due “giustizieri” fino ad acquisire un tabulato telefonico elaborato anni prima in un procedimento penale per un duplice omicidio di mafia e schiaffarlo nel cuore del fascicolo di “Poseidone”, versante “fughe di notizie”.
Parliamo dell’uccisione dei fratelli Loielo, avvenuta a Gerocarne, vicino a Vibo Valentia, nel 2004. Un caso di routine, almeno per gli investigatori che vivono e operano nel Mezzogiorno, ma cosa c’entra questa storia con una indagine sui soldi della depurazione mancata in Calabria? Calma, ora ci arriviamo. Occorre però prima chiarire alcune altre stranezze, altrimenti non si capirà neppure come mai il sindaco di Napoli e il suo ex consulente tecnico siano finiti sotto processo per aver ficcato il naso illecitamente in flussi di comunicazioni coperte da guarentigie costituzionali.
Se il travaso di cui sopra già era complicato per una serie di ragioni tecniche e cronologiche (suscettibili, come detto, di interpretazioni alternative), figuriamoci quanto avrebbe potuto essere difficoltoso il compierlo senza neanche avvisare il legittimo titolare delle indagini sull’omicidio Loielo, cioè il sostituto procuratore della Dda che se ne stava occupando. Perché è esattamente in quel modo che andò. Cioè, Genchi e De Magistris presero un tabulato telefonico emerso da un’indagine risalente a qualche anno prima e lo utilizzarono per investigare sui soggetti al centro dell’attenzione del “loro” ufficio evitando di informare il pm procedente. Glielo comunicarono solo dopo, a incasso già effettuato. Inutile precisare che non è la stessa cosa.
Tracciati telefonici spostati alle spalle dei soggetti legittimati a possederli: questa sì che ha l’aria di essere un’operazione in stile “poteri occulti”, molto più di tutte quelle denunciate dai due protagonisti in tonnellate di dichiarazioni stampa, bevute ancora oggi tutte d’un fiato da un certo tipo di opinione pubblica. La storia, agli atti del processo di Roma, merita di essere raccontata perché attrae nella sua orbita una serie di ulteriori interrogativi (fattispecie?).
È il 2 ottobre 2007 e il pm Marisa Manzini, all’epoca applicata alla Dda di Catanzaro, scrive al procuratore capo e, per conoscenza, allo stesso De Magistris. Siamo in pieno pandemonio mediatico, la scalata alla politica del magistrato napoletano che stava rimuovendo la sporcizia dagli interstizi della società era in avanzato stato di fermentazione. C’era già tutto l’armamentario schierato: cortei e programmi tv, titoli di giornale, mega raduni nei palasport a difesa della Costituzione repubblicana. Proprio mentre la si violava. Ma quel giorno, si diceva, la dottoressa Manzini, attualmente alla procura generale di Catanzaro, decide di mettere nero su bianco il resoconto di una telefonata con Genchi, a cui tre anni prima lei stessa aveva affidato l’incarico di consulenza tecnica per l’inchiesta sul duplice omicidio dei fratelli Loielo, incarico tra l’altro ancora non espletato a distanza di tempo. Ebbene, nel corso di quella conversazione, racconta la pm, «ancor prima che la scrivente potesse rappresentare il motivo della sua telefonata, il dottor Genchi inizia a riferire che sarebbe stato suo dovere segnalare taluni fatti occorsi che avrebbero potuto minare il rapporto fiduciario che deve intercorrere tra il magistrato e il proprio consulente. Dopo una lunga premessa, di difficile comprensione per chi scrive, il dottor Genchi mi segnalava che nell’ambito di una consulenza redatta su incarico del dottor De Magistris, aveva fatto uso di tabulati telefonici acquisiti nell’ambito del procedimento penale 3845/04 mod. 44 (quello sull’assassinio dei fratelli Loielo, ndr) assegnato alla scrivente».
L’affare comincia a ingrossarsi, si direbbe, tanto più che ai dubbi su un’operazione già di per sé spericolata si aggiunge una domanda importante: a chi era intestato il numero il cui tabulato Genchi e De Magistris avevano prelevato da un fascicolo e sistemato in un altro senza chiedere il permesso a nessuno? Semplice: era dell’avvocato Giancarlo Pittelli, allora senatore di Forza Italia, oggi deputato del Pdl, uno degli otto parlamentari individuati come parti offese nel processo di Roma. Continua il pm nella sua lettera di protesta: «Tra i diversi tabulati acquisiti vi era anche quello relativo all’utenza di tal Giancarlo Pittelli. Successivamente, nel corso dell’analisi dei citati tabulati, secondo quanto riferito dal dottor Genchi, il Pittelli veniva dallo stesso consulente identificato in Giancarlo Pittelli, avvocato e senatore della Repubblica». E la frase successiva della Manzini è scritta tutta quanta sottolineata per rimarcarne l’importanza. Eccola: «Il dato non è stato mai comunicato alla scrivente». Ma la dottoressa Manzini non si ferma qui e scarica tutta la propria rabbia completando il ragionamento: «Non solo. I tabulati, sulla cui utilizzabilità in generale – tenuto conto dei disposti della L. 140 del 2003 – occorreva soffermarsi (soffermarsi è scritto in corsivo, grassetto e sottolineato, ndr), sono stati utilizzati dal consulente, senza che chi scrive avesse dato autorizzazione alcuna, in quanto neppure era stata messa a conoscenza dell’evenienza (ancora sottolineature, ndr) per la redazione della consulenza depositata al dottore De Magistris».
La stessa storia la raccontarono due anni dopo, in una dettagliata relazione di servizio, il luogotenente Luciano Santoro e il maresciallo Claudio Dente, applicati del Ros, nel corso delle indagini su Genchi e De Magistris. I carabinieri, giunti nel palazzo di giustizia di Catanzaro, verbalizzarono l’accaduto minuziosamente, attraverso la testimonianza dei diretti protagonisti, e trasmisero il tutto alla procura di Roma. Morale della favola: i due di Catanzaro, sedicenti vittime di multiformi associazioni massoniche pronte a bloccarli, avevano allungato segretamente la loro manina in un’indagine di ’ndrangheta, preso i dati di traffico dell’avvocato difensore degli imputati del delitto, riversato i dati stessi nel fascicolo di un’altra indagine a carico dell’avvocato medesimo. Che, guarda caso, era pure un senatore. Il solo saperlo e far finta di niente – senza dire del poterne disporre – è vietato dalla legge, anche per una “nobile causa” come la loro. Per giunta informando ex post chi stava indagando legittimamente.
La vicenda, così come la raccontano gli atti del processo di Roma, scatena domande a ripetizione. Perché non fu detto alla Manzini che quello era il tabulato di un senatore? Fino a che punto è normale incunearsi nelle comunicazioni tra avvocato difensore e indagati? All’atto del travaso da un’inchiesta all’altra, allora, i due sapevano quale tabulato stavano maneggiando? Come mai non v’è traccia di immediata richiesta di autorizzazione a Palazzo Madama?
E ancora, visto che la stessa dottoressa Manzini si lamentava del fatto che Genchi, a distanza di tre anni, ancora non le avesse consegnato la relazione sull’omicidio Loielo («La Squadra Mobile di Catanzaro mi rassicurava sulla bontà del lavoro del consulente (…) il ritardo nella consegna veniva motivato attribuendolo alla lentezza dei gestori nel trasmettere i tabulati», scrive sempre nella stessa lettera), com’è che all’improvviso il lavoro viene portato a termine, salvo poi consegnarlo al pm “sbagliato”? O forse Genchi di quel tabulato sapeva tutto da tempo? Nessuno può dirlo con certezza, ma se così fosse, potrebbe significare che quel dato era stato conservato da qualche parte. E qui potrebbe riemergere la vera bestia nera dell’inferno giudiziario di quei giorni: la famigerata banca dati segreta di Genchi, una sorta di chimera mai rintracciata concretamente, nonostante la verosimiglianza della sua esistenza.
Un episodio del genere non poteva rimanere senza conseguenze, nemmeno per i magistrati che stavano indagando sull’omicidio mafioso: il gip che aveva autorizzato l’acquisizione dei tabulati nell’inchiesta sull’assassinio finì dinanzi alla commissione disciplinare del Csm proprio perché il materiale su Pittelli era stato raccolto senza le necessarie autorizzazioni. Poi, chiarito l’equivoco (cioè che nessuno aveva detto agli inquirenti che quello era il tabulato di un parlamentare), la cosa finì lì. Non per Genchi e De Magistris, come sappiamo. (…)
(3. continua)
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