
In bocca all'esperto
I trucchetti dei critici gastronomici visuali che criticano senza mangiare
La nostra epoca, che ci piaccia o no, è dominata dalla cosiddetta “socialità”. Intesa in senso internettaro. Ossia, mettere in comune fatti e fatterelli privati sulle pagine di twitter, facebook e tutto il resto. Far entrare il prossimo nella propria vita, in modo radicale.
Il critico gastronomico può calarsi in questa realtà promiscua in molti modi. Visto che lo scopo precipuo di un giornalista gastronomico è suscitare ai suoi lettori una fame tipo Biafra per spingerli a visitare certi ristoranti o comprare certi prodotti, chi scrive cerca di estendere questa modalità operativa anche nell’universo più informale di facebook. In che modo? Facendo le foto a quel che mangia, ed esponendole alle fauci degli astanti. Il social è a due dimensioni: gli altri guardano te, ma tu puoi anche guardare, analizzare, classificare quel che dicono i tuoi fruitori. E allora, il verdetto è semplice. Oltre ai commenti più generici, tipo «Buono!», «Ti invidio tantissimo» e altre cose così, è facile individuare alcuni filoni di reazione un po’ meno scontati.
Criticoni. Alla semplice descrizione del piatto, che non hanno provato, non appena gli ingredienti superano le tre unità, ecco arrivare gli scettici blu. Gli accostamenti azzardati non li convincono quasi mai. Onestamente ammettono che preferirebbero, comunque, assaggiare per farsi un’idea più precisa.
Girolamo Sirchia. Dalla foto, costoro giudicano unicamente la quantità della porzione. Nel caso di piatti usciti da un menù degustazione, si tratta sempre di porzioni ritenute troppo piccole: «Dopo mi devo fermare in pizzeria per soddisfare la fame».
Helmut Newton. Guardano solo la qualità della fotografia. Naturalmente sempre troppo scarsa per loro, gli ayatollah dell’obiettivo.
Critici visuali. È la categoria più amena. Sono gli inventori della critica gastronomica visiva, rigorosamente senza assaggio. Dalla foto, giudicano se la pasta è scotta e se il pesce è fresco, nonché la temperatura esatta dell’olio usato per la frittura e anche le scarpe che indossava lo chef quando ha cucinato la pietanza.
La variante più hard del critico visuale è il critico visuale virtuale. Ossia chi sostiene che non è obbligato ad assaggiare un prodotto per capire se è fatto bene. E questo senza neanche aver visto una foto. È un tipo di critica che va molto tra i talebani di certe branche specifiche della gastronomia. Come il gelato o il cioccolato.
Senza volerlo, i visuali e i visuali virtuali hanno risolto in maniera semplice e geniale uno dei problemi dell’assaggiatore: i soldi che occorre investire per giudicare un piatto, ossia mangiarselo. Basta entrare di straforo in un ristorante dotati di fotocamera (o meglio, di gigantesca macchinona professionale con dieci obiettivi), fare le foto, ritoccarle magari un po’ e poi giudicare. E via, recensione fatta, senza costi aggiuntivi. La variante ancor più risparmiosa consiste però nel non andare nemmeno in loco, e basarsi su foto di piatti trovate su internet, preferibilmente sul sito web della trattoria ma non necessariamente. Geniali: evitano al critico il logorio delle spese e della vita moderna (ma tanto si sa: una dei loro mantra è che il critico scrocca sempre pranzi presentandosi al ristoratore). Quindi, consentono di risparmiare anche al ristoratore. Innovatori della professione.
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