
Non aprite quella porta 3D, non ci sono più gli horror di una volta
Piccolo ripassino a uso dei profani ma anche dei fan del genere che rischiano di perdersi nel proliferare di sequel, rifacimenti e prequel. Nel 1974 esce, per la regia del promettente Tobe Hooper, The Texas Chain Saw Massacre da noi ribattezzato Non aprite quella porta, storia di un gruppo di giovani malcapitati che finiscono nelle grinfie di una famiglia di cannibali tra cui spicca un assassinio seriale armato di motosega. Prodotto tipico dell’epoca – low budget, piuttosto cruento – il film di Hooper incassa parecchio e lancia nel firmamento horror un nuovo serial killer, LeatherFace, killer ritardato che indossa una maschera di pelle umana. Hooper dirige a metà degli anni 80 un secondo episodio poco riuscito e non fanno meglio Jeff Burr e Kim Henkel che dirigono altri due sequel alcuni anni più tardi. Arriviamo ai giorni nostri: nel 2003 Marcus Nispel (Pathfinder, Conan The Barbarian) mette a punto un remake del film originale con un bel cast tra cui spicca Jessica Biel, ben confezionato ma che in sostanza aggiunge poco o nulla al film originale. Ha successo però e viene prodotto nel 2006 un prequel con la firma di Jonathan Liebesman (World Invasion, La furia dei titani) e sotto la supervisione del produttore Michael Bay ma non bissa il successo del film precedente. E infine Non aprite quella porta 3D che non è né un remake né un sequel in senso stretto. È un reboot, ovvero il nuovo inizio per una saga che si vorrebbe rivitalizzare. Dopo un prologo in cui si assiste al massacro della famiglia Sawyer a opera di polizia e di civili locali inferociti contro la famiglia che nasconde LeatherFace, si arriva ai giorni nostri. Heather (la bella Alexandra Daddario) è l’unica sopravvissuta della famiglia Sawyer, adottata allora da una coppia del paese. Dopo aver scoperto le sue vere origini Heather decide di tornare sul luogo del massacro per far chiarezza e soprattutto per prendere possesso della grande villa che una zia che non ha mai conosciuto le ha lasciato in eredità.
REBOOT. Bella confezione e 3D efficace per quanto i soggetti rappresentati siano un po’ sempre gli stessi (posteriori di ragazze, coltelli acuminati, schizzi di sangue): in Non aprite quella porta 3D a mancare è, come spesso accade nell’horror recente, una regia sicura che sorprenda lo spettatore e riscatti una vicenda inflazionata. Non è il caso di John Luessenhop che dirige con il pilota automatico e senza brio una storia troppo nota e prevedibile. Tutto è già visto: i quattro giovani protagonisti, belli e ingenui; l’incontro con l’autostoppista; l’arrivo in una casa dal passato di sangue; un po’ di sesso; le vittime che cadono sotto i colpi del pazzo omicida. Le cose migliori e originali del film di partenza (l’ambientazione rurale, il senso di solitudine e il senso di claustrofobia di molte sequenze) si perdono in una rivisitazione che punta molto sull’effetto sangue (il film è discretamente cruento) e su una commistione casuale di vari generi: allo slasher, cioè all’horror in cui il protagonista è un maniaco armato di un’arma affilata, si accompagnano ora il POV (il point of view, ovvero l’horror del punto di vista alla Paranormal Activity) ora il torture porn alla Saw ma più che rielaborare generi differenti Lussenhop sembra inseguire la moda, peraltro esaurita dei film sopracitati. E il risultato è quello di buttare alle ortiche un buon inizio in cui i carnefici diventano vittime e viceversa, su modello dell’impareggiabile finale de La notte dei morti viventi e fare del suo Non aprite quella porta 3D l’ennesimo horror autoreferenziale e posticcio in cui a mancare non sono certo il sangue o le belle figliole ma una gestione efficace dei meccanismi della tensione, suspense e sorpresa, che gente come Craven, Hooper, Argento e Romero conoscevano a menadito.
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