Zanzotto, poeta rabdomante capace di andare al fondo della “verità di tutti i giorni”

Di Daniele Ciacci
18 Ottobre 2012
Nel primo anniversario della morte di Andrea Zanzotto parla Uberto Motta, ordinario di Italianistica a Friburgo: «Non voleva ricercare una verità superficiale, ma scavare oltre».

È il 18 settembre 2011. A novant’anni, si spegne Andrea Zanzotto. È lutto nel mondo della letteratura. Dal suo esordio con Dietro il paesaggio (1951), il “faro” Zanzotto ha indicato la rotta a tutta la poesia dell’era post-montaliana. Tempi.it ha voluto intervistare Uberto Motta, professore ordinario di Italianistica presso l’Università di Friburgo, in Svizzera.

Perché si ricorda Andrea Zanzotto?
Perché è un poeta che ha saputo unire una cultura molto raffinata a una semplicità di cuore e a un’umiltà davvero esemplari. A dispetto di tutte le sue conoscenze e delle sue competenze ha conservato una freschezza, un’ingenuità un po’ infantile nel guardare la propria vita.

Eppure la sua poesia sembra, a un primo approccio, molto difficile.
È vero, e rappresenta un primo – apparente – ostacolo che sembra contraddire la “freschezza” di cui parlavo in precedenza. Nel tempo in cui abitiamo, constatiamo fenomeni analoghi nell’arte pittorica e nella musica. Per ottenere autenticità è stato necessario ideare linguaggi nuovi e sempre più complessi. La poesia è sempre più avanti, ha un diverso quoziente profetico rispetto alla lingua che adoperiamo tutti i giorni. Non è l’unica strada possibile: Umberto Saba, Giorgio Caproni o Vittorio Sereni impiegano linguaggi diversi e più comuni. Ma Zanzotto crede davvero nel “poeta rabdomante”, come il genio cieco di Omero. La lingua dell’autore di Pieve di Soligo non è quella di tutti i giorni, perché il poeta non vuole ricercare una verità “di tutti i giorni”. Vuole scavare oltre la superficie, e per farlo ha bisogno di uno strumento diverso.

Per favore, si spieghi meglio.
È come quando si va a pescare. È la grandezza della preda che si vuole afferrare a determinare gli attrezzi da impiegare. Tra l’altro, posso constatare che la difficoltà a leggere Zanzotto non ha mai scoraggiato i giovani lettori interessati: è una sfida alla nostra ragione. Le categorie razionalistiche che adoperiamo quando leggiamo fatti di cronaca non si adattano a questi testi: Zanzotto ha una domanda diversa, che vuole una completa partecipazione del cuore e interpella il profondo, l’utopico, il profetico. Non vorrei essere blasfemo, ma se rileggo il libro di Isaia e mi immagino la reazione dei primi lettori, non credo che dovesse risultare più trasparente dei testi poetici di Zanzotto. L’alone di mistero è letterariamente il verbalizzarsi della verità. Ci vuole un po’ di visionarietà. Quello di Zanzotto non è un diario in presa diretta del nostro tempo. D’altronde, ci sono tanti poeti quanti sguardi diversi sulle cose.

Qual è il merito più grande di questo poeta?
Ha saputo adoperare, al modo dantesco, tutta la scala delle possibilità lessicali, stilistiche e metriche, spaziando dal dialetto di Pieve di Soligo al neoclassicismo dei sonetti foscoliano, fino alle sperimentazioni più astratte e verticali di La Beltà. Ha dovuto adoperare tutte le lingue per scavare in ogni dove. Alcune poesie sono estremamente denotative, altre sublimemente surrealistiche. Ma tutte ci obbligano a vedere quel “di più” che la superficie della realtà non contiene.

Per accostarci a Zanzotto, quale lettura consiglia?
Non si può prescindere da La Beltà, del 1968. Qui il poeta arriva al picco della sua escursione linguistica. Io, però, non comincerei da un libro del genere, ma partirei da strade più affabili. La luna, gli sguardi, i fatti e i senhal può essere un più adatto punto di partenza. Trae dall’allunaggio la sua ispirazione, è un poemetto più breve della raccolta precedente, ed essendole immediatamente successivo deriva da quella stessa “colata incandescente”, benché più facilmente circoscrivibile. È un buon banco di prova, oltre al cuore pulsante dell’opera di Zanzotto.

Ma come può piacere una poesia incompresa?
Già il critico Gianfranco Contini ha sottolineato che per innamorarsi di una poesia non è necessario comprenderla. Esattamente come le persone: non ci innamoriamo di qualcuno soltanto dopo aver visto la sua carta di identità. Al massimo facciamo il contrario. Ma la scintilla deve scattare.

@danieleciacci

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