
Paul Bhatti: «Il caso Rimsha ha aperto gli occhi ai musulmani sulla blasfemia»
«Il Pakistan è una società dove la legge sulla blasfemia viene usata per condannare chi è innocente. C’è tanta gente che appoggia questa legge in buona fede, perché non sa come viene applicata, non conosce quello che c’è dietro. Ora, con il caso di Rimsha Masih, anche la comunità musulmana ha capito che in questa legge c’è qualcosa che non va». È una vera rivoluzione quella annunciata da Paul Bhatti, fratello del ministro cattolico per le minoranze Shahbaz, assassinato l’anno scorso. Il consigliere speciale del primo ministro per l’Armonia nazionale ha rilasciato un’intervista a tempi.it in cui commenta le diverse fasi e le conseguenze del caso Rimsha Masih, la ragazzina cristiana accusata di blasfemia per avere bruciato delle pagine del Corano e poi rilasciata su cauzione in seguito alla perizia medica, che testimoniava il suo ritardo mentale, e all’arresto dell’imam Chishti, che avrebbe falsificato le prove contro di lei. Il caso di Rimsha è unico perché una parte influente della comunità musulmana per la «prima volta nella storia del Pakistan» si è schierata a difesa dei cristiani.
Consigliere Bhatti, c’è spazio per modificare la legge sulla blasfemia, obiettivo per cui suo fratello si è battuto ed è stato ucciso?
Finalmente sì. Tanti leader religiosi hanno capito che la legge non serve a proteggere il Corano, anzi disonora i suoi stessi insegnamenti. Per questo sono stati uniti nel condannare i colpevoli della manipolazione, soprattutto perché è andata di mezzo una bambina, minorenne, disabile e questo ha sensibilizzato tanta gente. Molti musulmani hanno capito che queste ingiustizie non dovrebbero mai accadere e ora ci penseranno due volte prima di credere alle accuse di blasfemia. Io sono speranzoso in un cambiamento, ho incontrato tante persone, adesso faremo dei seminari sulla legge.
Il presidente islamico del All Pakistan Ulema Council, Allama Tahir Ashrafi, ha addirittura dichiarato: «Rimsha è nostra figlia, Chishti ci riempie di vergogna».
Non era mai successo prima. C’è la volontà di ridiscutere la legge sulla blasfemia, ho sentito tante persone che me l’hanno manifestata.
Perché si è subito mosso per difendere Rimsha? Sapeva bene quello che rischiava.
Quando per la prima volta ho sentito del caso, mi sono subito sentito responsabile di prevenire lo scontro tra cristiani e musulmani. In tanti mi hanno aiutato e questo mi ha dato coraggio. Sapevo dei grandi rischi che correvo, basta pensare a che cosa è successo a mio fratello Shahbaz, ma Dio ci ha aiutati e ora sono ottimista anche per il seguito del processo.
Sempre Ashrafi ha dichiarato che c’erano dei motivi economici dietro l’accusa di blasfemia a Rimsha: «Sapevo che volevano cacciare i cristiani dal quartiere per costruire un centro studi islamico».
So che si è parlato di motivi economici dietro questa accusa di blasfemia, è possibile ma io vedo e percepisco soprattutto molto odio e discriminazione. Non basta infatti mandare via i cristiani per costruire un centro studi islamico, perché la maggior parte delle famiglie è in affitto, quindi dovrebbero mettersi d’accordo con i veri proprietari. Io percepisco molta intolleranza reciproca, ora invece le comunità si stanno normalizzando. Speriamo che continui ad andare bene.
Dopo le accuse a Rimsha, 300 famiglie cristiane sono state minacciate e sono fuggite dal quartiere di Mehrabad, alla periferia di Islamabad, dove viveva la ragazzina cristiana con la famiglia e dai due quartieri confinanti. Qual è la loro situazione oggi?
Si sta normalizzando. Alcuni ancora non vogliono tornare alle loro case perché hanno paura ma io parlerò con il presidente della Repubblica perché li sostenga. Sono contrario alla concessione a queste persone di nuovi alloggi, perché l’ingiustizia subita da Rimsha e da loro è stata provata, la politica si è mossa e si è impegnata per risolvere la situazione, per cui non devono temere. Oltretutto se ora loro ottengono nuove case, tutti, appena avranno un problema, chiederanno di andarsene e questo non deve accadere. La situazione va risolta dall’interno, parlando con le comunità.
C’è stata molta confusione intorno all’età di Rimsha e al suo stato mentale. Qualcuno ha detto anche che è affetta da sindrome di Down. Come stanno davvero le cose?
Lei compie 12 anni a dicembre, come è scritto sul suo certificato di nascita. Secondo la perizia medica potrebbe avere al massimo 14 anni ma la sua età mentale è di un paio di anni inferiore. Quindi ha un leggero ritardo mentale.
Lei ha visto Rimsha e il padre dopo che la ragazzina è stata liberata dalla prigione su cauzione. Come stavano?
Rimsha stava bene fisicamente. Però ha subito un grande trauma e anche per questo parlava poco, oltretutto è timida. Però non è stata maltrattata, non ha subito violenze o botte. Anche il padre stava bene, anche se è molto magro.
Ora Rimsha è stata portata in un luogo segreto e sicuro dalla polizia. Qualcuno dice che lascerà il Pakistan, anche perché ha ricevuto minacce di morte. È vero?
Noi non vogliamo che lei lasci il paese perché quando viene appurato dal tribunale che ha subito un’ingiustizia, non deve temere di nulla. Riusciremo a proteggerla. Se poi succederà qualcosa di nuovo, vedremo che cosa fare.
Quando Rimsha è stata accusata, sono circolate molte notizie discordanti, raccolte firme richieste dal padre.
Tante organizzazioni si sono attivate per difenderla, ma c’è chi ha sbagliato facendo credere che il padre avesse chiesto una raccolta firme o che avesse lanciato un appello. Queste cose sono false e chi ha diffuso notizie false è uno stupido. Volevano solo fare scena, farsi pubblicità. Per questo io ho proposto un disegno di legge che preveda che non vengano riconosciute quelle Ong che non svolgono il loro lavoro seriamente.
Ci può dire cosa è successo veramente il 16 agosto? Rimsha ha davvero bruciato delle pagine del Corano?
Assolutamente no, non ha fatto niente del genere. Ma per raccontare i fatti di quel giorno è meglio attendere la fine del processo.
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