Pietà, il ritorno di Kim Ki-duk tra i maestri del cinema

Di Paola D'Antuono
12 Settembre 2012

C’è da scommettere che il Leone d’oro dell’ultima Mostra del cinema di Venezia non riuscirà a conquistare il botteghino italiano, troppo abituato a tutt’altro genere di film. Eppure la speranza è che non siano solo i cinefili doc ad attendere l’arrivo di Pietà di Kim Ki-duk, in uscita venerdì 14 settembre. Una pellicola che ha il grosso merito di tirare il suo regista fuori dal buco nero nel quale era precipitato e restituirlo ai suoi ammiratori con una linfa creativa degna dei grandi maestri contemporanei. Il suo 18° film è un autentico capolavoro, che richiede uno sforzo emotivo non indifferente ma lo ripaga ampiamente.

VITE DISPERATE. La storia si svolge a Cheonggyecheon, sobborgo a sud di Seul, sporco, sudicio e pieno di baracche all’interno delle quali si consumano le esistenze disperate di piccoli artigiani perennemente indebitati e chiusi nelle loro buie officine. La loro paura più grande è rappresentata da una ragazzo con giubbotto di pelle e lo sguardo indifferente che si occupa di un recupero crediti a dir poco violento: chi non può saldare il prestito viene reso invalido, i soldi dell’assicurazione potranno così ripagare il debito. La vita dell’usuraio cambia quando alla sua porta suona una donna, che si presenta come sua madre. Ma l’uomo non le crede e la sottopone a nauseabonde prove per smascherarla. Ma la donna sopporta i suoi soprusi e riesce a far breccia nel suo cuore. A trent’anni questo strozzino crudele si riappropria della famiglia che non ha mai avuto e questo lo porta a un esame di coscienza: come può aver causato tanto male a così tante persone? Quando poi sua madre sarà rapita da una delle sue vittime il dolore e la disperazione diventeranno insostenibili.

CINEMA D’AUTORE. Stomaco, cervello e cuore sono richiesti in dosi massicce per comprende totalmente quest’opera d’arte, che mette in guardia lo spettatore sin dalla prima scena: la violenza è una fastidiosa costante, come lo sporco delle strade di Seul, ben lontane dal centro città, dove il denaro gira copioso tra i piani alti dei grattacieli. Nei sobborghi abitati dai reietti della società i soldi rappresentano solo il demonio. Senza non vi si può sopravvivere e averne è una condanna costante perché non bastano mai. Solo l’amore familiare sembra tenere ancorate alla vita terrena le misere esistenze che nascono, crescono e troppo spesso muoiono tra il fango delle strade non asfaltate, lasciando nella povertà e nello strazio chi è costretto ad andare avanti in un mondo che sembra assomigliare a un gigantesco girone dantesco. Persino il protagonista piega le sue resistenze dinanzi alla donna che l’ha tenuto in grembo e che prima ignora, poi odia, poi tollera e infine ama, e che con la sua scomparsa lo getterà in uno sconforto che non avrebbe mai compreso altrimenti. Kim Ki-duk ha detto di essersi ispirato alla Pietà di Michelangelo per questo film e lo si intuisce facilmente dalla bellissima locandina, che rende l’idea del film molto più di qualsiasi foto di scena. Il finale lascia l’amaro in bocca a più livelli, la sensazione di fastidio per le immagini che scorrono sullo schermo probabilmente persisterà anche fuori dalla sala, ma la pellicola del regista sudcoreano, che avevamo imparato ad amare grazie a Ferro 3, Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, è senza dubbio da annoverare tra gli imperdibili di questa stagione. Anzi, degli ultimi anni.

Vale il prezzo del biglietto? Senza dubbio
Chi lo amerà? Chi rimpiangeva il Kim Ki-duk dei primi anni
A chi non piacerà? Agli amanti dei blockbuster

 

@paoladant

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