
Papa Francesco, la Cina e quel sogno irrealizzato

Hong Kong. In questi giorni i cattolici cinesi stanno pregando per l’anima di papa Francesco. In molte chiese si approntano veglie e messe per il pontefice che ha tanto amato la Cina. Stupisce invece la sobrietà con cui i canali ufficiali sono intervenuti: comunicati stampa di poche righe; una risposta di Guo Jiakun, portavoce del ministero degli Esteri, che ricalcava frasi già dette molte volte; qualche articolo più approfondito sul nazionalista Global Times, voce semi-ufficiale.
La nazione atea più grande al mondo
D’altra parte, la Cina è un Paese che si definisce “la nazione atea più grande al mondo”, con una leadership che proibisce ai membri del Partito comunista di abbracciare qualunque religione, anche quando vanno in pensione. È quindi comprensibile che essa si fermi a qualche affermazione protocollare, senza gli sproloqui retorici e le lacrime di coccodrillo che in questi giorni invadono l’etere.
Forse ci si poteva aspettare qualcosa di più: in fondo papa Francesco è stato fra le personalità contemporanee ed ecclesiali che più hanno lavorato e detto per sdoganare il “Paese di mezzo”, il centro del mondo, apprezzando la sua cultura, il suo popolo, la sua leadership. Addirittura, nel 2018, un amico argentino di Francesco, il vescovo Marcelo Sanchez Sorondo, allora segretario della Pontificia accademia delle scienze, dopo essere stato a Pechino per alcuni giorni, fra alberghi di lusso e banchetti ufficiali, aveva dichiarato che «i cinesi sono quelli che meglio attuano la dottrina sociale della Chiesa».
Il sogno irrealizzato di papa Francesco
Molti esperti dibattono sulle origini della simpatia di Francesco per la Cina. Essi citano il suo essere latino-americano (e quindi anti-Usa), o la sua cultura argentina e peronista. Altri dicono che egli è stato un profeta della multipolarità; altri ancora che egli era un illuso sessantottino, che predicava di “mettere i fiori nei vostri cannoni”.
A mio parere l’atteggiamento di papa Francesco verso la Cina si potrebbe definire un “invaghimento”. A ciò hanno contribuito da una parte il suo desiderio di giovane gesuita di essere inviato missionario in Estremo oriente; dall’altra, la grande testimonianza di Matteo Ricci, suo confratello, che nel XVI secolo è riuscito a costruire un ponte fra la cultura occidentale e quella cinese, tanto da ricevere il permesso – dopo più di 20 anni – di risiedere a Pechino, vicino all’imperatore. Papa Francesco voleva coronare il suo sogno giovanile e ricalcare le orme di Matteo Ricci, come lui stesso ha detto molte volte. Ora il suo sogno è rimasto irrealizzato.

L’apertura di Benedetto XVI alla Cina
Il desiderio di poter andare in Cina o aprire un dialogo con il Paese che allora era il più popoloso al mondo (ora superato dall’India), è comunque precedente a papa Francesco. Già Giovanni Paolo II aveva inviato lettere a Deng Xiaoping, senza ricevere risposta. Lo stesso aveva fatto Benedetto XVI con Hu Jintao. La “Lettera ai cattolici della Cina” (2007) di Benedetto XVI conteneva un invito alle autorità di Pechino ad aprire un dialogo, riservando per la Santa Sede le nomine dei vescovi, e per la Chiesa la libertà religiosa, così da operare nella società a servizio della giustizia e della pace.
Negli ultimi anni del pontificato di Benedetto XVI, Cina e Vaticano avevano iniziato a stilare alcune bozze di accordo che però – secondo addetti ai lavori – non rispettavano in pieno la giurisdizione del papa nelle nomine dei vescovi.
Il “corteggiamento” di papa Francesco
Con l’arrivo di Francesco sul soglio pontificio, è iniziato un “corteggiamento” puntuale: in molte interviste e viaggi papali Francesco ha esaltato la Cina e i cinesi, e ha sempre espresso il desiderio di poter visitare il Paese. È anche iniziato un “accerchiamento”, con visite ai Paesi vicini alla Cina (Corea del Sud, Giappone, Myanmar, Filippine, Kazakistan, Mongolia, Thailandia, Indonesia, Singapore…) in cui Francesco ribadiva la sua stima per la Cina e la speranza di poter essere accolto nel Paese.
All’entusiasmo per la cultura cinese e la sua gente (senza alcuna distinzione fra popolo e leadership, Partito e nazione), egli ha aggiunto i silenzi su ogni elemento negativo che poteva offendere il governo cinese: Tibet e Dalai Lama, uiguri e Xinjiang, persecuzione di cristiani protestanti e cattolici.
È rimasto famoso il suo silenzio sulla situazione di Hong Kong nel 2020, dopo il varo della legge sulla sicurezza nazionale e molti arresti di giovani. Per l’Angelus del 5 luglio la segreteria di Stato aveva preparato un breve messaggio di 10 righe in cui si chiedeva «coraggio, umiltà e non violenza». Ma all’ultimo momento Francesco non ha letto il testo che era già stato dato in mano ai giornalisti. Da quel momento molti giovani di Hong Kong hanno perso fiducia nella Chiesa.
L’accordo segreto sui vescovi
A tutte queste avances amorose la Cina ha sempre risposto col silenzio o con frasi fatte. Nel settembre 2018, Vaticano e Cina firmano un accordo “provvisorio” e segreto (mai reso pubblico) sulla nomina dei nuovi vescovi. Secondo quanto detto dal Papa stesso, egli ha «l’ultima parola» (benedizione? Approvazione? Mandato? Avallo?) sulle nomine dei nuovi vescovi. Ancora oggi non è chiaro se il pontefice ha diritto di veto permanente sui candidati.
Secondo la Santa Sede l’accordo serve per dare nuovi pastori alla Chiesa cinese – al presente ci sarebbe bisogno di almeno 30 nuovi vescovi – e riconciliare i due rami della Chiesa, quella ufficiale, sottomessa al controllo del governo, e quella non ufficiale (sotterranea), considerata illegale da Pechino.
La persecuzione dei cristiani in Cina
L’accordo, rinnovato nel 2020 e nel 2022 (per due anni) e nel 2024 (per 4 anni), ha funzionato col contagocce: in 7 anni sono stati nominati una decina di vescovi, ma il controllo sulla Chiesa è divenuto ancora più stringente. Dal 2018, per esercitare il ministero, sacerdoti e vescovi devono sottoscrivere l’adesione all’Associazione patriottica (che controlla la Chiesa); aderire alla politica socialista del Partito; sostenere il Partito comunista e la sua leadership; rifiutare l’evangelizzazione dei giovani al di sotto dei 18 anni; esercitare la missione solo all’interno dei luoghi registrati col governo.
A questo si aggiungono i regolamenti e i permessi da ricevere per pubblicare materiale religioso su internet; regolamenti per le costruzioni sacre; iscrizione all’albo nazionale del clero; regolamenti sulle attività religiose di stranieri in Cina. In tutto domina un senso negativo delle religioni (sospettate di essere tramite di terrorismo, insurrezione, divisione) e un forte nazionalismo (gli stranieri, ad esempio, non possono svolgere attività religiose comuni con i locali), tanto che diversi analisti parlano di una “Chiesa di Stato”, simile a quella che esisteva ai tempi di Napoleone Bonaparte. Vari sacerdoti ufficiali che hanno trasgredito questi regolamenti sono stati radiati e allontanati dalle loro parrocchie.
La situazione è ancora più dolorosa per la Chiesa non ufficiale che, pur rispettando le leggi dello Stato, esige libertà nel campo religioso (secondo quanto afferma la Costituzione cinese e la Convenzione Onu sui diritti religiosi, firmata da Pechino). Essa si trova a mal partito: molti preti hanno abbandonato (almeno ufficialmente) il lavoro pastorale; vari vescovi sono agli arresti domiciliari; alcuni sono scomparsi da anni nelle mani della polizia.
Ombre e luci dell’accordo con Pechino
Va anche detto che in questi anni Pechino non ha rispettato l’accordo: ha varato nuove diocesi e nominato nuovi vescovi. Il caso più eclatante è il trasferimento di monsignor Giuseppe Shen Bin da vescovo di Haimen a vescovo di Shanghai nel 2023, senza alcuna consultazione con la Santa Sede. Il Vaticano dapprima ha espresso contrarietà, poi ha accettato la cosa, forse perché spera che Shen Bin (in buonissimi rapporti con la leadership) possa aiutare a regolarizzare la situazione della Chiesa locale. A questo sono seguiti altri due casi di trasferimento di sedi episcopali, senza rispettare la procedura dell’accordo.
Forse, se dovessimo abbozzare un bilancio sull’impegno di papa Francesco verso la Cina, dovremmo dire che al presente la Chiesa cinese ha molto meno libertà ed è sottoposta a un maggiore controllo; ma l’accordo ha frenato una valanga di nomine episcopali illecite (40!) che a partire dal 1980 il ministero degli Affari religiosi aveva promesso. Di tutto il “corteggiamento” di Francesco rimangono ora il suo sogno irrealizzato e le preghiere dei cristiani in Cina, che perlomeno possono esibire nelle chiese il ritratto del papa senza timore di ritorsioni.
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